La fine dell'Europa tra astensionismo e neonazionalisti?

La fine dell’Europa tra astensionismo e neonazionalisti?

Autore Esterno

La fine dell’Europa tra astensionismo e neonazionalisti?

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venerdì 14 Giugno 2024 - 15:30

L'analisi di Nicola Bozzo sullo scenario post elezioni europee

di Nicola Bozzo, avvocato, scrittore, esperto in materia politica e costituzionale

Finis Europae?

Le recentissime elezioni europee pongono come tema immediato quello di una Finis Europae? L’espressione Europa, considerata nella sua complessità storica, filosofica, politica, evoca una sorta di illimitato spazio per il pensiero. È d’altro canto vero che il concreto assetto politico -istituzionale in cui questo progetto si è incarnato nel nostro presente, cioè l’Unione Europea, non può essere assunto come unico termine di riferimento di un processo storico molto più stratificato, polifonico e tortuoso.
Muoviamo da due elementi di concretezza utilizzandoli un po’ come possibili chiavi di lettura, come una sorta di artificio metodologico.
Il primo è quello di un enorme astensionismo accumulatosi progressivamente nel tempo con cieca insistenza, che propone il tema assolutamente più pregnante ovvero quello della inesistenza di qualcosa che può chiamarsi popolo europeo. Cioè di una forma sociale e politica interiorizzata dai cittadini europei che assume la sembianza di decisivo fattore di legittimazione democratica dell’Unione Europea, forse ancor di più come condizione stessa di esistenza di tale entità politica.
Il secondo aspetto, figlio anch’esso di una lenta e costante progressione nel tempo, è il successo di quelle che si chiamano forze sovraniste e neonazionaliste. Si guardi alla Francia, all’Austria, alla Germania, dove una raggruppamento con esplicite ascendenze neonaziste diviene seconda forza, all’Italia, e alle varie forze populiste e illiberali dell’area mitteleuropea (Ungheria) e anche dei Paesi baltici e nordeuropei.
Tentiamo uno sguardo retrospettivo.

Il mito unificante del nazionalismo

L’utopia europeista trovò la sua più recente e suggestiva configurazione negli anni più terribili del vero Finis Europae, cioè tra il ’30 e ‘45 del secolo scorso, tempo nel quale sembrava possibile l’inverarsi di un’Europa totalitaria, sterminata e soppressa dal delirio hitleriano e nazifascita.
Questo è particolarmente vero nell’esperienza storica tedesca, sia con Bismarck sia nella successiva epoca Guglielmina, ma si tratta per così dire di una sorta di mitologia sempre possibile restando dentro il perimetro dello Stato-Nazione, perché di volta in volta, secondo l’emergere di spinte irrazionali cieche votate a una sorta di culto per la forza come garanzia della propria esistenza individuale e storica, il nazionalismo diventa un mito unificante.
E naturalmente, anche in Italia, come scrive Angelo Tasca nel suo secondo volume sulla Storia del Fascismo a proposito di nazionalismo fascista: “«L’azione ha sepolto la filosofia» constatava Mussolini nel treno che lo conduceva a Roma dove il re stava per affidargli il cómpito di formare il nuovo ministero. Questo «realismo» che il fascismo rivendica a ogni piè sospinto, fissa il livello che la sua «dottrina» non supera mai. Giunto al potere, il fascismo si attribuisce degli antecedenti,
come tutti i villan rifatti fan raccolta di quarti di nobiltà. Esso risale alla tradizione guelfa, alla contro-riforma, al romanticismo: tutto è messo a profitto in questa febbrile ricerca d’antenati. Ad onta di tali fatiche, il fascismo, prima e dopo la vittoria, è ridotto ai sottoprodotti di un grossolano pragmatismo, all’esaltazione della forza, di cui il suo nazionalismo esasperato e la sua idolatria dello Stato sono le manifestazioni vistose. Alla base di tutto si trova una visione «pagana» della vita concepita come lotta e sforzo aventi in sé stessi la loro giustificazione. Onde l’esaltazione della guerra: «Solo la guerra — dice Mussolini nell’Enciclopedia Italiana — porta al massimo di tensione».”

C’è chi mette in discussione lo Stato-nazione


In questo terribile passaggio storico, nascono, quasi come una speranza aurorale e ispirate da una sorta di necessità interiore alle prese con il delirio storico del totalitarismo, pensieri di quasi necessaria purezza. Si tratta della radicale messa in discussione critica di quel binomio che sembrava assolutamente indiscutibile e cioè lo Stato-nazione. Si ritenne (profeticamente) che il totalitarismo, avendo certamente più concause, fosse, una feroce deriva dell’idea di nazione come potenza e forza, e dello Stato come costruzione formale e istituzionale di questa intrinseca volontà di potenza. Basti pensare per quel periodo alle splendide pagine e all’inesauribile attivismo di Thomas Mann (ricordo solo la sua espressione “Vogliamo una Germania europea e non un’Europa tedesca”); al pensiero e all’opera di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi tra carcere e confine di Ventotene (Il Manifesto di Ventotene, libro tra i più citati e meno letti); al pensiero socialista umanitario ed europeo di Ignazio Silone con la rivista Europa Socialista; alle riflessioni di Carlo Rosselli in alcuni numeri dei quaderni della rivista Giustizia e Libertà; a Simone Weil e
naturalmente a tanti altri ancora.

Ovviamente, nel dopoguerra, questa ispirazione ebbe un’ulteriore fioritura. Mi piace ricordare, ad esempio, una conferenza sull’Europa tenuta da Albert Camus ad Atene (culla della Democrazia), nella quale lo scrittore già Premio Nobel, demistifica l’espressione ‘sovranità’, cogliendone, per l’appunto, l’ombra dispotica che si cela dietro questa espressione per sua natura ambigua.

La necessità di un’Europa dei popoli con un’unificazione sociale

Verità è che nell’Europa del dopoguerra e dopo soprattutto gli accordi di Yalta non c’era spazio concreto per questo fervore neoumanistico. Tanto è vero che l’Unione Europea, sostanzialmente, nasce dopo la caduta del muro di Berlino a seguito dell’unificazione tedesca promossa da Helmut Kohl.
Quanto detto però sarebbe assolutamente parziale se non si cogliesse l’altro e decisivo profilo dell’europeismo critico del periodo cui ci riferiamo. Si tratta, appunto, dell’Europa come unificazione sociale dei popoli, come risultato di processi di democrazia, di autogoverno locale, di pluralismo sociale e principalmente di giustizia sociale. Può dirsi, in estrema sintesi, che l’Europa non può pensarsi come uno scheletro istituzionale e giuridico se progressivamente non si afferma un’unificazione sociale e democratica dei popoli che, nella garanzia della propria concreta esistenza, scorgono le ragioni di una nuova appartenenza, altrimenti si tratterebbe di un’astrazione o di un sogno intellettuale altrettanto astratto.
Ovviamente, a proposito della relazione tra collasso sociale e sbocco autoritario, viene in mente un’espressione che nella Storia reale e poi nella storia delle idee ha assunto una valenza simbolica che va oltre lo specifico fatto storico. Si tratta della Repubblica di Weimar. Lì, in quel caso, all’alba del nazismo, le forze politiche classiche (i socialdemocratici e i cristiano sociali) scrissero un’avanzatissima Costituzione. Tuttavia, quello che non si comprese fu il fatto che in ragione dell’umiliazione tedesca dopo la prima guerra mondiale, a causa della disoccupazione di massa, della iperinflazione, dell’impoverimento del ceto medio, del rancore dei perdenti, già si era compiuto il dissolvimento di una forma razionale e statale e tutto ciò poi portò alla tragedia del Novecento che conosciamo.

Una crisi di sistema nel cuore delle nostre comunità

Naturalmente non voglio dire che siamo agli esordi di un nuovo nazismo. Uso infatti questa espressione in modo metaforico, come simbolo di una crisi sistemica. Oggi, si parla infatti dei barbari come qualcosa di quasi sconosciuto e di estraneo che poi si manifesta in forme del tutto incomprensibili utilizzando categorie consolidate, quasi fosse un miracolo al contrario, un miracolo del diavolo. E invece non si tratta di ciò che era esterno o estraneo, ma di ciò che maturava con una inflessibile logica dentro il cuore delle nostre comunità. Non un dissolvimento dall’esterno, ma un auto-dissolvimento.
Se pensiamo alla formazione degli Stati nazionali, nel nostro caso l’Italia, è possibile scorgere come il processo di unificazione scaturì dall’agire di precise forze sociali, di correnti intellettuali, di un certo affermarsi di un senso comune. Basti pensare alle riflessioni dal carcere di Antonio Gramsci sull’unificazione nazionale. Egli non la intendeva come una semplice conquista regia, cioè come una sorta di annessione al Piemonte, ma ne coglieva acutamente gli equilibri; la natura e la funzione della borghesia nazionale; il quadro europeo in cui essa si andava collocando, e in particolare, vedeva nella massa contadina del sud il soggetto sociale sostanzialmente escluso dal processo unitario.

Oggi la struttura sociale è profondamente mutata


Allo stesso modo, Gobetti, nella Rivoluzione liberale, colse con una straordinaria acutezza la nuova funzione storica da riconoscere all’ormai più che nascente movimento operaio, inteso da lui in modo eretico in confronto al pensiero liberale dell’epoca, come espressione di una consapevolezza collettiva dentro il processo produttivo di quel tempo e quindi, come espressione di una libertà collettiva nei gangli della Torino dell’epoca, moderna città operaia.
Scorrendo rapidamente per annotazioni, il secondo momento di nuova unificazione sociale degli Stati nazionali, si ha nel secondo dopoguerra con lo stato sociale. Avviene cioè che in opposizione all’integrazione elitaria del vecchio Stato liberale, lo Stato viene innervato da nuove forze sociali, dai partiti democratici, dalle istanze di eguaglianza. In sintesi il tema dell’attuazione della nostra Costituzione.
Ci troviamo, sicuramente oggi in società totalmente modificate. La fine della società salariata ha determinato l’esaurimento del movimento operaio come classicamente inteso. In una società fortemente individualizzata, sono del tutto mutate le linee di divisione e le ragioni delle differenze sociali. In una parola, la struttura sociale.

Negli ultimi 20 anni una gigantesca crisi economica e sociale

Bisogna, dunque, considerare la gigantesca crisi economica e sociale degli ultimi vent’anni.
L’abbandono di una serie di garanzie e tutele che avevano caratterizzato lo Stato sociale europeo dal dopoguerra agli anni ottanta; l’affermarsi di un fondamentalismo del mercato come unico strumento di regolazione sociale; la costruzione ideologica di un modello antropologico di uomo come individuo avulso e sradicato da ogni contesto e semplice accumulatore di ricchezza, successo personale e beni privati; la non compiuta edificazione di poteri post-nazionali, democraticamente legittimati. Tutto questo sinteticamente ricordato non è certamente indifferente per il nostro tema.

Milioni di donne e di uomini in Europa sono stati sospinti a forme di deprivazione economica e sociale, ma anche a forme di spoliazione umana ed esistenziale, perché in una società che sacralizza il successo individuale si tratta di perdenti, di sconfitti, di scarti e quindi anche le misure deboli di welfare hanno assunto più un sapore paternalistico e compassionevole che il riconoscimento di universali diritti di cittadinanza. La dignità, certo, non si esaurisce nei diritti, ma essere titolari di diritti permette quella stima di sé nelle relazioni sociali. Tutto ciò, naturalmente frantuma dall’interno ogni solidarietà di comunità ed esalta, al contrario, ogni possibile accentuazione di forme di totale privatismo, disincanto, cinismo.

La piena affermazione dell’economia sulla politica


Se vogliamo esprimere tutto questo in una sintesi verbale, può dirsi, la piena affermazione dell’economia sulla politica. Alcune élite europee e sicuramente tra queste Mario Draghi, in effetti, a partire probabilmente dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina, avevano perfettamente intuito che il meccanismo non reggeva più.

Sebbene dettate dall’emergenza, le politiche di debito comune nel periodo pandemico, di solidarietà tra Stati, di un certo ruolo di nuovo espansivo della Banca Centrale Europea, così come i programmi del Pnrr e di Next Generation, le direttive sul salario minimo e sulle piattaforme digitali, le politiche sulla transizione ecologica e altro ancora, intendevano, forse, porre le basi di un nuovo inizio per le istituzioni comunitarie, una sorta di nuovo contratto sociale.

Un’Europa ostaggio dei nazionalismi


Come si sa, Macron si era fatto in qualche modo promotore di un’ipotesi di riforma dei trattati, imprimendogli un segno marcatamente più sociale, immaginando anche una nuova forma di rapporti tra gli Stati membri che, come in dei cerchi concentrici, prevedevano forme di cooperazione rafforzatissime anche con comuni politiche fiscali e di bilancio nella zona euro e modalità di collaborazione più elastiche per gli Stati rimanenti, ritenendo che le ultime elezioni europee dovessero essere in qualche modo il bagno battesimale per questi mutati indirizzi.
Il risultato è noto. L’asse franco-tedesca esce a pezzi dalle elezioni. Il Front Populaire di Marine Le Pen diventa il primo gruppo al Parlamento europeo e i probabili futuri successi nelle elezioni nazionali (in Francia, in Austria, etc.) avranno come conseguenza il fatto che un organo chiave come il Consiglio dei capi di Stato e di governo europei, diventi, anche per i suoi meccanismi interni di funzionamento, ostaggio dei nazionalismi. In ogni caso, il vento che muove i neonazionalismi contiene una precisa investitura ai leader di una tutela assoluta e non negoziabile delle prerogative legate all’appartenenza nazionale.

Il bisogno di un nuovo contratto sociale nazionale ed europeo

Dentro questo quadro generale, in Italia, accanto al successo di Giorgia Meloni (che poteva essere logorata, dopo due anni di governo), il Partito democratico, complessivamente, ottiene un buon risultato. Tuttavia, la funzione storica che questo tempo che viviamo esige è, come si è cercato di dire, la progressiva stesura di un nuovo contratto sociale nazionale ed europeo, perché una politica senza più popolo, così come delle istituzioni senza più legittimazione democratica e quindi senza più investitura, corrono il rischio di ridursi sempre di più a semplici astrazioni e illusorie parvenze, mentre la vita scorre anche ciecamente, altrove.
Tanto ci sarebbe da dire, ma non si può certamente ipotecare il futuro.

Nicola Bozzo

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Un commento

  1. Pensieri e interpretazione storica del passato e del presente molto discutibile e troppo personale

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