Al Teatro Stabile di Mascalucia un riuscito adattamento, da Dostoevskij, sull'impossibilità del riscatto
Lo scorso 27 aprile scorso è andata in scena una magistrale pièce, “La mite”, tratta da un “Racconto senza tempo” del grande F. M. Dostoevskij. Dopo esser stata rappresentata al Teatro Ridotto di Catania, ha fortunatamente trovato quest’altro accogliente palcoscenico: il Teatro Stabile di Mascalucia, in un sito incantevole, adiacente al locale santuario.
E così gli astanti hanno potuto apprezzare una delle rarissime, e peraltro indimenticabili trasposizioni della perturbante narrazione in parola, in uno straordinario adattamento dello script, con drammaturgia di Valeria La Bua, nella impeccabile ricostruzione dello spirito dello scrittore russo. Lodevole oltremodo anche la resa di un Giovanni Arezzo, in guisa davvero superba, con la capacità di intercettare non le parole “tout court” dell’eroe negativo, ma anche la gestualità, le sfumature espressive, precise fino all’inverosimile dello stesso. Il tutto in un crescendo di tensione che, pur trovando incipit nel momento e nel luogo in cui il dramma ha già avuto compimento, ripercorre in forma di rovello persistente gli accadimenti fin dal primo incontro con la donna che, seppur a lui congiunta in vincolo matrimoniale, si è mantenuta misteriosa, una monade nel suo guscio… lontana, in guisa abissale dall’umano consorzio e dallo sposo.
C’è incredulità e smarrimento per quel gesto estremo per il quale il protagonista non vuole giungere a sviscerare alcuna motivazione, ripetendosi allo sfinimento che finché lei – ormai cadavere sul letto di morte – è ancora essenza materiale, tangibile e visibile, tutto va bene, ma che non se la lascerà portare via.
Il sudore scorre copioso in uno alle lacrime – e a più riprese il sublime interprete ha restituito tale insanabile malessere detergendosi il volto con l’acqua di un catino in quell‘andirivieni nei meandri della mente – ma intende ora fare appello ad un briciolo di razionalità che gli consenta di togliere la sordina alle sconnesse, comprensibili sensazioni di scioccante delirio… è imperativo categorico comprendere e per questo deve raccogliere le forze per far luce (pur fioca) in quel buio nero pece che gli sta offuscando ogni capacità intellettiva.
Si deve giungere alla comprensione, non per andare oltre, ma per darsi un istante di tregua…senza quella coltre di oppressivo senso di colpa che non gli lascia scampo…Avrebbe potuto impedire quella estrema decisione di Lei? E quali ne sono state le ragioni? La Mite intanto -nella intensa e spirituale resa attoriale di una sublime e sfingea Alessandra Pandolfini – si alza a più riprese dal tristo sudario per impersonare la vita con lui in peculiari frangenti riesumati dal ricordo del narratore. e la ritroviamo, smarrita, per la prima volta al cospetto dell’uomo del Monte dei Pegni, inflessibile, privo di qualsivoglia umana empatia alla vista di tanta disperazione… la Mite quale esemplare sintesi dei tanti miseri costretti da una vita grama – di cui il titolare dello squallido esercizio non intende condividere alcun aspetto – a portare qualche oggetto residuato da una pregressa condizione più agiata, per impegnarlo e trarne un minimo sostentamento dal ricavato….confidando di poterlo in futuro riscattare.
Così anche la Mite si era recata più e più volte nella di lui dimora, riponendo nel gestore una ingiustificata fiducia, confidando di ricevere dallo stesso un comportamento corretto, una stima giusta di quei propri poveri averi, come l’icona mariana della quale si era dovuta privare.
E quegli appuntamenti, reiterati, avevano generato in lui uno strano fermento, che lo aveva indotto a volerne sapere di più di quella giovane, ingenua, sempre dignitosa e indecifrabile, che non metteva mai nulla in discussione, sembrando incassare ogni avversa situazione con inspiegabile distacco.
Aveva saputo poi che i brutali parenti presso i quali lo stato di orfana la aveva indotta a trasferirsi per la mera sopravvivenza, la stavano per maritare ad un orribile bottegaio grasso e in là con gli anni, e trovandolo inaccettabile, in considerazione del crescente interesse che quella donna tanto difforme dal comune gli aveva suscitato, aveva accelerato il loro matrimonio, nel tentativo, neanche troppo celato di sperimentare ancora e di più il proprio potere su di lei….oramai in sua mercè, prendendola alla sprovvista, riuscendo a stimolare una parvenza di positiva reazione, un certo sollievo, atteso che il confronto con lo scampato coniuge era tutto a proprio vantaggio….l’aveva scelta in realtà proprio in considerazione del suo essere passivamente interattiva, per la di lei giovane età e mitezza, e l’assenza di moti di ribellione, l’aveva voluta come vincere, insomma, e, ritenutala totalmente domata, aveva iniziato a incamminarsi verso il loro comune abisso.
A tratti la Mite, però, non appariva più proprio tale, anzi sembrava insofferente e ostilmente chiusa nelle proprie ragioni insondabili…sempre…fino alla sconvolgente scoperta che si era incontrata con un altro che egli conosceva molto bene, e tale infausto accadimento lo aveva riportato al proprio passato di ufficiale che, per una serie di circostanze spiacevoli, era stato bandito da quel consesso, aveva perso l’onorabilità e, per ripicca contro l’irragionevole torto subito, aveva intrapreso quella deplorevole attività, reagendo con volontà di estraniarsi dal mondo e godere delle condizioni di deprivazione dei suoi avventori…del loro essere a lui sottomessi per bisogno.
Anche con la Mite era andata così, l’aveva poi maritata, reputando gli dovesse essere grata per questo, e completamente sottomessa…La Sua imprevedibile reazione lo aveva spinto a più ridimensionati consigli, proponendole di ripartire da zero, giungendo ad esternarle i propri sentimenti, e credeva di essere riuscito nell’intento di farle intendere il proprio mutato coinvolgimento nel rapporto, il desiderio di ritrovarsi davvero….forse finalmente su un terreno paritario; Lei, che pur pareva aver compreso, ora era però solo un corpo senza vita, ricomposto sul lettino, e che gli sarebbe stato sottratto a breve, e tutto si sarebbe dissolto, senza alcun margine, né barlume di luce.
Quella che, a buon titolo, è stata appellata una delle pagine più potenti di disperazione della letteratura universale, imprigionata in un nichilismo privo di riscatto, ha saputo trascinarci in quell’abisso dell’animo umano, costringendoci a interrogarci sui rapporti di potere che sovente contrassegnano anche quelli amorosi, giungendo fino ai recessi più profondi del nostro animo.
Una produzione di valore e uno splendido risultato
Al centro della rappresentazione l’uomo che aveva smarrito sé stesso e il proprio posto al sole, cercando solo di vendicarsi della società che lo aveva respinto ai margini, perseguendo con ferocia inesorabile questo intento, divenuto capolavoro in quell’incontro/scontro con quella donna affascinante e oscura, che non era riuscito a piegare per renderla totalmente in sua balia. Resta per lui solo da accettare che, proprio per risolvere a Suo modo quel duello, la Mite aveva scelto di uscire di scena, precludendogli ogni possibilità di riscatto.
In conclusione, non si può che lodare ed esprimere plauso assoluto per questa encomiabile produzione Teras Teatro, in collaborazione con Teatro del Canovaccio, anche per la perfetta e chirurgica direzione della mise en scene, riferibile alla stessa La Bua in tandem con Toscano, ove ogni elemento, ivi comprese le scene e le luci di Davide A. Toscano e Simone Raimondo, ha concorso allo splendido risultato, che ha commosso il numerosissimo pubblico presente, che si è prodigato in meritevoli applausi.