Gabriele Lavia mette in scena il grande dramma incompiuto di Pirandello: I Giganti della montagna. Dall’1 al 5 febbraio al Teatro Vittorio Emanuele.
“Se lei, Contessa, vede ancora la vita dentro i limiti del naturale e del possibile, l’avverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori di questi limiti, per grazia di Dio”.
Un teatro distrutto, diroccato, dalle cui crepe compare una bellissima luna piena, è centro di un’atmosfera onirica, surreale, davvero teatrale nel profondo della sua accezione. Palchetti, bassorilievi barocchi tipici di un teatro all’italiana, qui abbandonato a se stesso, in cui “manca il necessario ma il superfluo vi è in abbondanza”, divengono dimora di un mondo dell’oltre, di un tempo e un luogo indefinito dove l’anima ha libero sfogo, tra magie, immaginazione e tanta poesia.
Il teatro doveva essere abbattuto per lasciar posto a degli uffici ma, interrotti i lavori e rimasti lì un piano, alcune poltrone e il sipario, accoglie adesso gli Scalognati e la loro Villa. I vivaci, chiassosi e singolari personaggi sono i protagonisti de “I Giganti della montagna”, dramma incompiuto di Pirandello, suo grande testamento poetico, che la regia di Gabriele Lavia mette in scena, completando la sua trilogia pirandelliana, dopo Sei personaggi in cerca d’autore e L’uomo dal fiore in bocca… e non solo.
Il monumentale spettacolo è in scena al Teatro Vittorio Emanuele con quattro appuntamenti diversi: sabato 1 febbraio, ore 21,00; domenica 2 febbraio, ore 17,30; martedì 5 e mercoledì 6 febbraio, ore 21,00.
La Compagnia della Contessa, compagnia di attori, è in forte crisi. La Contessa Ilse è da anni tormentata, a tal punto da impararne tutte le battute, da un’opera che deve recitare ma che il pubblico non accoglie favorevolmente. Si tratta de La favola del figlio cambiato (sempre di Pirandello), scritta per lei da un uomo che l’ha amata e poi, disilluso, si è suicidato. La vita che a lui è stata negata Ilse vuole ridare alla sua opera, con un’ostinazione tale da rovinarla; porta in giro i resti di se stessa, è piena di scatti nevrotici e causa continuamente liti nella sua compagnia. L’opera, però, è di alto livello. Se ne accorge, non appena la legge, anche Cotrone (interpretato da Lavia), l’atipico e affascinante mago che guida gli Scalognati e accoglie la Compagnia della Contessa presso la sua Villa.
Dagli Scalognati verità e finzione invertono completamento i loro ruoli. Ovunque trionfa il potere dell’immaginazione, della fantasia, della poesia e della creatività. Tutto è incantato, dai colori di questi esuberanti personaggi, le loro risate, i loro salti o le loro corse da una parte all’altra del palco, fino alle magie di Cotrone, che fa cambiare colore ai balconcini del teatro, apparire lucciole/fantasmi tra il pubblico ed ingigantire la luna.
Nella Villa La Scalogna viene abbandonata ogni forma di decoro, onore, dignità, virtù, per liberarsi l’anima da tutti gli impicci e renderla aperta come l’aria. Nella Villa la Scalogna si ha tutto proprio quando non si ha più niente, non si temono le parole e, più di ogni altra cosa, è vietato ragionare. “Non mi vorrete mica diventare ragionevoli? Vigliacco chi ragiona. Hai bisogno che ti credano gli altri per credere a te?” incalza Cotrone.
Nella Villa La Scalogna non ci si pone più alcun interrogativo su cosa sia vero e cosa no, basta immaginare una cosa e si rappresenta; qui assume grande valore ciò che è illusorio, incredibile, irrazionale; si è teatranti di natura, si respira solo un’aria favolosa e si vive di immaginario. “Ho sempre inventato la verità e la gente ha sempre creduto dicessi le bugie, ma non si dice mai tanto la verità come quando si mente” confessa Cotrone.
Cotrone propone ad Ilse ed alla sua compagnia di restare con gli Scalognati, per fare vivere davvero l’opera, in mezzo a loro tutti interpretano una parte perché, e qui Lavia riferisce un’altra celebre massima pirandelliana, “imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”; ma Ilse rifiuta, nonostante l’esultanza della sua compagnia, vuole che l’opera viva tra gli uomini, glielo deve. Cotrone l’avvisa: “come lei non ha amato il poeta, gli uomini non apprezzeranno l’opera”.
Il secondo tempo cambia scenografia, con un immenso lenzuolo bianco, e tanti fantocci sullo sfondo. Avendo rifiutato la sua prima proposta, Cotrone consiglia, allora, ad Ilse di portare la sua favola ai Giganti della Montagna, ma l’aiuto che lui può fornirle resta all’interno della Villa.
Il contrasto tra Cotrone e Ilse ripropone un dilemma di Pirandello: vivere unicamente della sua creazione poetica oppure scendere a patti con il volere del pubblico e il sostegno dello Stato? Per Lavia, Cotrone rappresenta Pirandello, ma qui incarna anche il regista stesso, la sua arte e il suo conflitto con un mondo che sembra comprenderla sempre meno; il medesimo del grande autore siciliano. L’arte, e in particolare la cultura teatrale, viene lasciata ai margini nella nostra società; lo rappresenta la scenografia, il teatro trascurato e derelitto, simbolo di una realtà che attribuisce ad esso sempre meno valore o interesse, che non comprende sia la creazione migliore dell’uomo. Su di esso, però, brillano i colori degli Scalognati e dei fantocci, immagine della vivacità, della forza, dell’ironia di chi il teatro lo fa e lo vive. Al loro opposto, i Giganti, emblema di tutti quegli uomini freddi che distruggono il teatro per farne degli uffici.
Ilse recita e crea intorno a sé tutto ciò di cui aveva bisogno e che immaginava, il teatro entra direttamente nella finzione scenica in un bellissimo momento di metateatro tipicamente pirandelliano. Tutto è possibile, insegna Cotrone, se restiamo bambini, capaci di fare un gioco, crederlo e viverlo come fosse vero. Il finale si avvicina con un rumore di sottofondo, simile al fischio di un treno, che genera, inevitabilmente, un altro richiamo pirandelliano alla novella “Il treno ha fischiato”. Scoppia la paura: sono i giganti della montagna che scendono al galoppo verso la Villa. Gli attori (e noi pubblico insieme a loro) seguono con lo sguardo il tragitto che percorre il suono, finché tutti si voltano verso il teatro diroccato ed urlano «Io ho paura. Ho paura!». Sono le ultime cinque parole che Pirandello scrisse.
“I Giganti della montagna” incarna, più che mai, come grande testamento, il pensiero unico, le idee e la genialità del suo autore, percepiamo Pirandello chiaramente, la sua risata dolce amara, quel sentimento del contrario che fa riflettere sull’amarezza di una vita-trappola e la necessità di evaderne; l’illusorietà di ciò che riteniamo vero, la folle validità del suo contrario; il culmine del teatro del mito e dell’oltre, con le sue tematiche fantastiche. Ma vediamo chiaramente anche Lavia, la sua lotta in difesa del teatro; l’omaggio alla sua magia e alla sua speranza che non viene mai meno, anche in una realtà disincantata come la nostra; la precisione della gestualità ed espressività di un grande interprete come lui e le sue scelte stilistiche.
Il Cotrone di Lavia, dal copricapo turco a causa “del fallimento della poesia della cristianità”, è saggio ma allegro, è un impeccabile e grande protagonista, differente dalle precedenti rappresentazioni, richiama ma si allontana da quello tradizionale di Strehler. Accanto a lui vi sono 23 attori incredibili, un cast unico per i numeri del teatro attuale, 23 attori capaci di apparire, al tempo stesso, un’unica cosa grazie alla loro perfetta sintonia; alternano, incrociano e incontrano le loro battute come se fossero una grande danza; coinvolgono continuamente il pubblico recitando in mezzo alla platea e disegnano, per esempio con i difficili movimenti scattosi, meccanici e sincronizzati dei fantocci, scene davvero spettacolari.
Guardare “I Giganti della montagna” di Lavia è come assistere a sempre nuovi fuochi d’artificio, all’interno di una dimensione in cui ci riconosciamo essere apparenza nell’apparenza, sogno concreto, savia follia. Finisce lo spettacolo ma una parte di noi rimarrà in quella Villa e nelle parole del suo mago: “Avviene ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… Tutto l’infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa.”
di Luigi Pirandello
con Gabriele Lavia
e con
Federica Di Martino, Clemente Pernarella, Giovanna Guida, Mauro Mandolini, Lorenzo Terenzi, Gianni De Lellis, Federico Le Pera, Luca Massaro: la Compagnia della Contessa,
Gabriele Lavia: Cotrone detto il Mago,
Matilde Piana, Ludovica Apollonj Ghetti, Michele Demaria, Simone Toni, Marìka Pugliatti, Beatrice Ceccherini – iNuovi: gli Scalognati,
Luca Pedron – iNuovi, Laura Pinato – iNuovi, Francesco Grossi – iNuovi, Davide Diamanti – iNuovi, Debora Rita Iannotta, Sara Pallini, Roberta Catanese, Eleonora Tiberia: i Fantocci (personaggi della Favola del figlio cambiato)
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Antonio Di Pofi
luci Michelangelo Vitullo
maschere Elena Bianchini
coreografie Adriana Borriello
regia Gabriele Lavia
produzione Fondazione Teatro della Toscana
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino, Teatro Biondo di
Palermocon il contributo di Regione Siciliae con il sostegno di ATCL Associazione Teatrale fra i Comuni del
Lazio, Comune di Montalto
di Castro e Comune di
Viterbo