Il silenzio è la nostra tomba. La voce delle donne è sommersa dai soliloqui maschili
Ho 51 anni. C’è stato un momento in cui, circa 15 o più anni fa, l’8 marzo si era trasformato in altro rispetto alle origini. Era diventata una festa consumistica, da trascorrere magari in pizzeria con le amiche come agli addii al celibato. Un’inversione di tendenza vi fu nel 2011, dopo la nascita del movimento Se non ora quando (erano gli anni del Berlusconismo, di Ruby e delle Olgettine).
Nel frattempo siamo piombate nell’inferno dei femminicidi e dal 2007 in poi anche in Italia abbiamo manifestato il 25 novembre per la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.
La morte di Alessandra Musarra, giovedì 7 marzo, 24 ore prima delle tante manifestazioni organizzate per la Giornata della donna, mi ha suscitato una serie di riflessioni. Mi sono chiesta se sarebbe stato meglio annullare tutto, per rispetto verso quella vita spezzata, oppure se invece era necessario più che mai dare forza a quegli eventi.
Ma la domanda che mi ha angosciata per tutta la notte tra giovedì 7 e venerdì 8 è stata un’altra. Mi sono chiesta: ma se da anni, ogni giorno, con tutti i mezzi possibili, combattiamo contro ogni forma di violenza, e nonostante ciò quotidianamente raccontiamo di questi massacri, dove abbiamo sbagliato? Mentre Alessandra moriva a Messina, a Napoli un marito uccideva sua moglie.
L’8 marzo da Roma a Milano il movimento “Non una di meno” ha protestato in corteo, ma appena il giorno prima erano già state “due di meno”.
E’ un problema culturale. La domanda che mi sono fatta due giorni fa era questa: perché i numeri non diminuiscono nonostante l’informazione, la prevenzione, la protesta?
La sera dell’ 8 marzo una marcia silenziosa ha attraversato Messina. Il silenzio è giusto. Ma temo che il silenzio sia la nostra tomba. Forse il vero nodo è proprio la voce. Forse se ogni mese del calendario continua ad essere macchiato di sangue, dovremmo urlare di più e rifondare l’8 marzo, riprendere intatta la rabbia che avevano le nostre mamme quando manifestavano per il divorzio, l’aborto, le pari opportunità.
Alessandra Musarra intrecciava mimose e ramoscelli d’ulivo per l’8 marzo, ma i suoi post sulla violenza, che pure erano un grido d’aiuto, non l’hanno salvata.
Forse non gridiamo abbastanza. La nostra voce non arriva nei posti giusti. La nostra voce non è dove essere. Arriva smorzata.
Siamo “coriste” là dove la voce principale, almeno a Messina, è maschile.
Dal dopoguerra ad oggi non un sindaco di Messina è stato donna. Non una presidente della Regione Siciliana (e per avere un’assessora regionale sono trascorsi 60 anni, da Paola Tocco Verducci del ’47 a Marina Noè nel 2007), una sola presidente della Provincia, Amelia Ioli Gigante ma per forza maggiore e per breve periodo (divenne presidente in conseguenza all’arresto dell’allora presidente, nel finire del ’93).
Mai avuto un Rettore donna nonostante centinaia di professoresse di altissimo livello o un direttore generale di Asp e di ospedali (al più sono state nominate commissarie pro tempore), o ancora una donna segretaria generale di Cgil, Cisl e Uil. Non una donna alla guida di Confcommercio, Camera di Commercio, Assindustria, Confesercenti, Confartigianato. Mai una donna alla guida dell’Ente Teatro, dell’Atm, dell’Ato, di Messinambiente, Amam, Autorità Portuale. Mai una presidente di una circoscrizione o una donna segretaria di partito ( Liliana Modica fu coordinatrice di Rinnovamento Italiano che però durò poco sullo scenario partitico).
Mai una donna nelle stanze dei bottoni, nei ruoli decisionali.
Le uniche due donne che abbiamo avuto in ruoli di vertice sono due prefette (l’attuale, Maria Carmela Librizzi è di altissimo livello ed è una fortuna averla). Non a caso la nomina non avviene in base ad elezione locale ma è di competenza del Ministero degli Interni.
I meccanismi di selezione della classe dirigente a Messina sono totalmente asserviti a logiche maschili. La prova è che le “seconde file” femminili vengono selezionate secondo logiche di acquiescenza e mai di competitività (raramente di competenza).
Forse la colpa è nostra. In quel “buco” del quale parlavo all’inizio, quando l’8 marzo perse quella spinta propulsiva per lasciare spazio alla “festa”, ci siamo distratte e questa distrazione la stiamo pagando.
In Italia ci sono 6 donne Rettore e 76 Rettori. Nel governo gialloverde ci sono 5 ministre e 13 ministri. Premier e 2 vicepremier sono uomini. I leader dei partiti sono uomini. Vale per il Pd, il M5S, la Lega, Forza Italia. L’unica donna a capo di un partito è Giorgia Meloni con i Fratelli d’Italia.
La voce delle donne non si leva alta perché è sommersa dai soliloqui maschili.
Forse sì, dovremmo tornare a gridare. Se ci ammazzano una ad una è anche perché la nostra non è ancora una società di uguali, perché la cultura predominante prevede ancora un rapporto di potere in mano agli uomini.
C’è un filo che unisce l’8 marzo al 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Fin quando saremo considerate cose (non solo sessualmente, ma anche stampelle, segnaposto, belle statuine), questa percezione si trasmetterà nella cultura, nei comportamenti, in modelli generazionali.
Non è accettabile sentirsi dire “siamo con voi” l’8 marzo in piazza per i diritti e contro le violenze se poi la violenza più invisibile e sottile, quella che è indolore ma peritura, la si attua ogni giorno. Sistematicamente.
Rosaria Brancato
Finchè a parlare in pubblico saranno solo e sempre le 4 o 5 femmiste snob, magari del ceto intellettual benestante, ad esibirsi nei soliti sproloqui del tea delle 5 , o nel salone della sezione rionale del partito di sinistra … otterremo poco e niente. Solo … insalate di parole.
il veterofemminismo di chi è arrabbiato contro gli uomini per i difetti della sua vita personale. Antistorico