L'autonomia differenziata e il nuovo Medioevo

L’autonomia differenziata e il nuovo Medioevo

Autore Esterno

L’autonomia differenziata e il nuovo Medioevo

Tag:

sabato 06 Luglio 2024 - 07:41

La riflessione di Nicola Bozzo: le radici storiche e politiche delle scelte attuali e del divario tra nord e sud

La riflessione dell’avvocato e scrittore Nicola Bozzo, esperto in materie costituzionali, storiche e politiche.

Con questo contributo si intende affrontare il tema della cosiddetta autonomia differenziata in quelle che sono le sue radici storiche e ideologiche. Infatti, è possibile cogliere, pur nelle particolarità di ogni singolo tornante storico, alcune “invarianze” ossia temi e ideologie ricorrenti che con una impressionante analogia si ripropongono a partire da quando, dopo l’unificazione nazionale del 1860, prende consistenza e assume una sua propria autonomia concettuale la questione meridionale.

Un primo tema ideologico ricorrente, che già si propose sin da allora, fu quello di una differenza di natura antropologica tra Sud e Nord del Paese per cui lo sviluppo diseguale veniva considerato la diretta conseguenza di caratteri tipici e strutturali delle diverse popolazioni. Questa forma di pseudoscienza rese fatali i percorsi di progresso e civilizzazione differenziati. Basta scorgere un po’ certa letteratura di fine Ottocento per cogliere come questo tema aberrante venisse proposto anche da tendenze di progressismo socialista. Si tratta di un tema che affiora dal cosiddetto positivismo scientifico del periodo colmo di pregiudizi legati alla razza, alla stirpe, alle qualità o non qualità congenite. Si tratta, insomma, di una sorta di lombrosismo sociale.

Quel divario tra nord e sud destinato ad ampliarsi

L’idea dell’alterità tra Nord e Sud prende sempre più corpo. Notissime le frasi con cui, nel 1860, Luigi Carlo Farini dipinge a Cavour le condizioni del Sud di cui è capo amministratore: «Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile. E quali e quanti misfatti!».
Nelle rappresentazioni, il Sud diventa simile all’Africa e all’Oriente, una terra altra, cui si contrappone l’immagine del Nord ritenuto moralmente, culturalmente e tecnicamente superiore.
È l’immagine di una differenza etico-sociale tra le due aree del paese che si amplia via via che si scende verso Sud, il «calcagno dello stivale», come scrive il conte Guido Borromeo: «Avvezzi alla severa disciplina e alla sdegnosa onestà del nostro settentrione, la viltà, l’ingordigia, la venalità e la malafede che cresce in ragione cubica più si discende verso il calcagno dello stivale fanno un effetto disperante».
Procedendo per cenni, in anni molto più recenti la questione meridionale fu riletta anche a partire dagli importanti contributi sociologici di Putnam sulla carenza di capitale sociale nelle regioni meridionali e di Edward Banfield sul notissimo concetto di familismo amorale.
Viceversa, se dobbiamo individuare il punto d’esordio di una lettura storico-politica che non affida a categorie sociologiche la questione meridionale, ma la colloca in precise scelte politiche delle classi dirigenti, non si può non rimandare a quella che, a mio parere, per affinità di elaborazioni, è la triade intellettuale formata da Gramsci, Salvemini e Guido Dorso.
Essi rintracciavano il momento fondativo del sottosviluppo del Sud post-unitario nelle scelte protezionistiche a favore della nascente industria settentrionale dei governi Giolitti e nell’alleanza strutturale tra nascente borghesia industriale e aristocrazia e neo-borghesia terriera del Mezzogiorno.

Il triangolo industriale nel nord nasce per una scelta politica ed economica

Il cosiddetto triangolo industriale Milano-Torino-Genova, non nasce per una sorta di autopropulsione dei ceti sociali emergenti del tempo, ma viceversa, nasce e si sviluppa attraverso una straordinaria concentrazione di protezionismo doganale; di integrale sostegno pubblico fatto di trasferimenti finanziari, dotazioni infrastrutturali, politiche di urbanizzazione, garanzie e prestiti bancari, continue commesse pubbliche. Si tratta quindi di una deliberata costruzione politico-economica e non di uno spontaneismo sociale. Certo tutto questo al Nord fu favorito dai più elevati livelli di istruzione, da favorevoli condizioni geografiche, da un riversarsi della ricchezza terriera nella nuova realtà industriale: così nacque il gruppo Agnelli.
E di questo periodo non può tacersi quello che è stato definito il patto giolittiano col riformismo socialista turatiano, in ragione del quale le “aristocrazie” operaie del Nord trovarono forme di tutela e protezione a confronto della totale esclusione sociale delle masse meridionali. E di fuoco sono infatti le parole di Salvemini e Gramsci, ma anche di Gobetti su questo patto di natura corporativa, senza il respiro di un’unificazione sociale nazionale.

Nel Mezzogiorno si lascia intatta la struttura feudale e latifondista

Per converso, si lasciò intatta, nel Mezzogiorno, la struttura feudale e latifondista della proprietà terriera costituita da analfabetismo, masse disgregate, feudalesimo quasi interiorizzato dagli eterni perdenti della storia, e questo non per una sorta di indifferenza territoriale, ma per la ragione, invece molto più concreta e pregnante di un’alleanza strategica tra borghesia industriale e proprietà terriera del Sud.
Qui possiamo cogliere un’altra di quelle che ho definito “invarianze” o tratti ricorrenti che attraversano come un impercettibile filo rosso lo scorrere della questione meridionale.
Infatti, i ceti dominanti del Sud, chiusi in una stagnante eternità economico-sociale, garantivano nei collegi uninominali con pochissimi votanti in ragione del suffragio censitario dell’epoca, gli equilibri di maggioranza per i governi moderati del Regno.
Ovviamente, la tenuta sociale del Meridione era garantita da un lato dall’ordine pubblico e dalla repressione degli insorgenti e disperati moti di protesta delle masse contadine amorfe e senza una consapevolezza di sé, e dall’altro da una minuta politica di spesa pubblica, di clientelismo e corruzione, di impiego pubblico, di concessioni e piccoli appalti intorno ai quali si andava cementando una piccola borghesia impiegatizia subalterna e comunque legata ai favori e ai trasferimenti dei Municipi, vere e proprie roccaforti nella disponibilità del nuovo ceto politico di maggioranza.

Lo scambio trasformista tra ceti dominanti del nord e del sud

Guido Dorso, nel suo studio del 1925 sulla rivoluzione meridionale (edito da Piero Gobetti) coniò, a questo proposito, in un senso del tutto particolare il termine “trasformismo”. Esso non era tanto riferito ai continui cambiamenti di schieramento tipici fino a oggi della politica italiana, ma alla natura dello scambio tra ceti dominanti del Sud e del Nord per cui i primi rinunziavano a esprimere qualunque indirizzo politico non concordante con i governi del Nord, ritagliandosi, però, uno spazio garantito di supremazia politica economica nelle loro Regioni. Da un lato si spoliticizzavano e dall’altro si regionalizzavano esercitando il monopolio del dominio territoriale.
Questo aspetto è meravigliosamente descritto nella grande letteratura siciliana: Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, ma, naturalmente anche Sciascia a partire dai racconti racchiusi negli “Zii di Sicilia”, o nel Pirandello dei “Giovani e i vecchi”.
Ho utilizzato il termine “invarianze” perché se ci si riflette, questa formula “negoziale” attraversa tutta la storia d’Italia. È assolutamente preponderante nel fascismo, partito per definizione filo-agrario, ma continua anche, sia pure trasfigurato, nelle vicende repubblicane.

Cosa c’è dietro l’ideologia dell’autonomia differenziata

Il Mezzogiorno, quindi, a uno sguardo storico, non ha mai espresso le due figure sociali tipiche della modernità, cioè la borghesia e il proletariato. Per un verso, per quanto abbiamo cercato di dire, non emerge una borghesia con quei caratteri sia di iniziativa, sia di autonomia culturale, sia di funzione propulsiva nel mettere comunque sotto stress sistemi sociali consolidati, chiusi, asfittici. Per altro verso, l’unico modo per fare emergere un proletariato meridionale, come ben compresero con argomenti del tutto coincidenti Gramsci e Gobetti, sarebbe stato quello di un’integrale riforma agraria, cioè di una industrializzazione dell’agricoltura nata dal disfacimento del latifondo, dentro cui potevano cimentarsi nuove figure tecnicamente attrezzate, moderne, consapevoli della propria funzione sociale di proletariato meridionale. E solo questo avrebbe potuto determinare quei caratteri di dinamicità e anche di mobilità sociale da riversare poi nel crogiuolo di un nascente industrialismo.
Dietro l’ideologia dell’autonomia differenziata di cui non affronto gli aspetti tecnici abbondantemente trattati da altri in differenti sedi, si ripropongono, in effetti, queste vere e proprie “invarianze” cui abbiamo accennato.
Il divario tra Nord e Sud, sempre crescente, i cui tratti si sono acuiti dentro la cornice della globalizzazione a egemonia neo-liberista, vengono ricondotti a differenze storicizzate di natura quasi morale. Ritornano i temi dell’efficienza del Nord, della sua capacità produttiva, della sua attitudine a innovarsi e a cogliere di volta in volta nuovi spazi e opportunità di mercato (si pensi a tutta l’enfasi sul nuovo Nord-Est come snodo dell’economia globale).

La retorica del fare delle grandi regioni del nord

In qualche modo, può dirsi di una retorica legata all’idea di grandi regioni come vere e proprie nazioni. Come si sa da Renan nel suo celebre scritto sull’idea di Nazione, essa stessa è come l’approdo di una fisionomia storico-morale di tipo originario e fondativo che deve accompagnarsi a quello che lui chiamava il “plebiscito di ogni giorno”. In sostanza, una continua comunicazione tra l’origine e il presente che ne costituisce la prova della vitalità storica e della sempre rinnovata attualità.
Nel nostro caso, le Regioni-Nazioni del Veneto e della Lombardia rimuovono la storicità del loro maggiore sviluppo, riconducendolo, secondo un cliché neo-darwiniano, a una maggiore attitudine e resistenza ai cambiamenti e alle innovazioni, esaltando un’etica del fare, del saper fare, del sacrificio e del lavoro come loro specifico tessuto connettivo.

“La secessione dei ricchi”

Ritorna, quindi, l’invarianza del Sud come simbolo antropologico di un’inettitudine e di una colpa. Se si va alla sostanza del problema, si tratta di ciò che uno dei maggiori esperti di questi temi (Gianfranco Viesti) ha definito la “secessione dei ricchi”, simile, per certi versi, all’indipendentismo catalano.

Sempre secondo Viesti, il punto è nel mantenere dentro i propri perimetri regionali la ricchezza che si produce, non ritenendo ormai plausibile una forma di redistribuzione territoriale vissuta come una sorta di lesione di una propria sovranità territoriale e patrimoniale.
Uno dei temi, infatti più dibattuti è quello di come verrà disciplinato il cosiddetto residuo fiscale (si vedrà in che misura nelle successive intese che verranno stipulate tra Stato e Regioni).
Si tratta di un concetto abbastanza esoterico, per la verità. In parole semplici è la differenza tra la spesa pubblica complessiva di cui beneficia una Regione e il prelievo fiscale a cui è sottoposta la medesima Regione. Le proposte delle Regioni mirano a trattenere quanto più possibile
Come scrive Viesti, ecco «quanto sostenuto dall’allora presidente della regione Lombardia, Roberto Maroni, nel corso di un’audizione parlamentare: “La campagna elettorale referendaria è stata segnata dal tema del residuo fiscale, ossia la differenza tra quanto i cittadini lombardi pagano di tasse e quanto ricevono complessivamente dallo Stato. Si tratta di un residuo fiscale molto rilevante, ossia 54 miliardi di euro l’anno, e si è pensato di conseguire almeno la metà di questo residuo fiscale, ovvero 27 miliardi, per finanziare le nuove competenze e le nuove materie” (Commissione parlamentare per le questioni regionali 2018).
Il Consiglio regionale del Veneto ha approvato il 15 dello stesso mese il testo di una proposta di legge statale di attribuzione delle competenze. All’articolo 2 essa prevede che spettino alla regione, oltre ai tributi già attribuiti in attuazione della legge 42, “le seguenti quote di compartecipazione ai tributi erariali riscossi nel territorio della Regione stessa: nove decimi del gettito dell’Irpef […] dell’Ires […] dell’imposta sul valore aggiunto”».
Naturalmente tanto ci sarebbe da dire e tanto è stato detto sulle conseguenze che riguardano l’uguaglianza dei diritti di cittadinanza, non solo nei termini del finanziamento dei famosi Lea
(Livelli Essenziali di Assistenza), ma anche su un aspetto ancora più di fondo: ossia l’insostenibilità
finanziaria di qualunque politica pubblica di sviluppo territoriale, proprio in un momento storico in
cui riprendono fiato, dopo anni e anni di dibattito quasi proibito, gli interventi pubblici di stampo
neo-keynesiano come sostegno alla crescita.

Un nuovo Medioevo

Mi sembra che questa tortuosa e complessa vicenda possa inscriversi in un tratto della contemporaneità che può definirsi come una sorta di nuovo Medioevo. Cioè, ciascun individuo, o meglio cittadino, è ormai privato della certezza di una garanzia pubblica sulla propria esistenza sociale per potere in qualche modo tracciare i passi della propria storia di vita. Ciascuno gode ormai di forme più o meno ampie di protezione o di tutela secondo le corporazioni in cui è inserito (per questo nuovo Medio Evo).

Nel nostro caso, la corporazione territoriale, per cui essere veneto o siciliano diviene dirimente, ma anche, ad esempio, le corporazioni di lavoro. Ormai in maniera prevalente le politiche di welfare sono sempre di più affidate alle forme di previdenza professionale e aziendale, a scapito del welfare universale.
Insomma, una poco consolante deriva di frantumazione corporativa e territoriale che, alimentata dalla paura sociale legata alle tante crisi globali, dissolve anche quell’universalismo nel cui segno l’Europa stessa ha affermato il suo ruolo storico.

Nicola Bozzo

Nella foto iniziativa Cgil contro l’autonomia differenziata.

Articoli correlati

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Premi qui per commentare
o leggere i commenti
Tempostretto - Quotidiano online delle Città Metropolitane di Messina e Reggio Calabria

Via Francesco Crispi 4 98121 - Messina

Marco Olivieri direttore responsabile

Privacy Policy

Termini e Condizioni

info@tempostretto.it

Telefono 090.9412305

Fax 090.2509937 P.IVA 02916600832

n° reg. tribunale 04/2007 del 05/06/2007