Le magie jazz di Nicola Sergio, in un mondo infestato da marabù

Le magie jazz di Nicola Sergio, in un mondo infestato da marabù

Mario Meliado

Le magie jazz di Nicola Sergio, in un mondo infestato da marabù

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martedì 28 Dicembre 2021 - 09:58

Il pianista di Galatro il 30 suonerà a Palmi, a gennaio inciderà il quinto album "Flammants Roses", i fenicotteri rosa insidiati dagli “uccelli del male”

GALATRO (RC) – Un musicista sensibile e strepitoso, che il “tocco” proverbiale l’ha acquisito «studiando musica classica», l’ha affinato a Perugia con la vicinanza sempre formativa di Umbria Jazz – pilastro del jazz tricolore – ed esportato a Parigi, dove vive da una dozzina d’anni. Fresco di nozze con Priscilla, il pianista e compositore Nicola Sergio – tra i jazzisti calabresi e italiani più quotati – per le vacanze di Natale è tornato nella sua Galatro, piccolo centro interno della Tirrenica reggina di cui rappresenta un’eccellenza “da export”.

Un’immagine di Galatro, nella Piana di Gioia Tauro

Vacanze, ma anche lavoro. I concerti “del ritorno” di Sergio nella Piana di Gioia Tauro dovevano essere due, ma quello di domani sera – mercoledì 29 dicembre – alla Casa della musica di Laureana di Borrello è stato annullato giusto la sera di martedì.  
Incrociando le dita…, il pianista si esibirà dunque in piano solo la sera di dopodomani, giovedì 30 dicembre, alla Casa della cultura di Palmi.

«Beh – ci dice, raggiunto nella sua casa di Galatro, dove suona per il cronista alcuni dei brani che porterà in tour insieme ai nuovi: un riarrangiamento della storica hit dei Beatles Michelle; la sua Pèlerinage à l’île de Cythère, tratta dall’album Illusions e ispirata alla famosa tela di Antoine Watteau; una convincente versione di Meditacao, un superclassico della “Musica popular brasileira” firmato Tom Jobim –, per me sarà particolarmente bello: specie dal punto di vista affettivo, suonare nella mia terra per me ha sempre un significato particolare».

Nicola Sergio, com’è l’esperienza professionale, ma soprattutto umana, nella Ville Lumière?

«Mi ci trovo benissimo: del resto anche la mia sposa è francese… Diciamo che Parigi, come tutte le grandi capitali, dà tanto ma al contempo “chiede” tanto. Quindi dal punto di vista formativo quella parigina è stata un’esperienza formidabile, perché nella capitale francese operano stabilmente alcuni fra i più grandi talenti musicali del jazz e non solo. Ecco che, specialmente i primi anni, è stato davvero molto importante comprendere il livello del jazz a Parigi e adeguarmici. In un centro così nevralgico, poi, non rischi mai di trascurare delle cose pensando che, in fondo, sei l’unico e che rappresenti un dato acquisito: in realtà del genere, nulla è acquisito. Stimolo incredibile, questo, sia per la musica sia per i rapporti: ecco perché Parigi rappresenta una fucina continua, una scuola pazzesca in termini di umiltà e di desiderio di puntare sempre al massimo».

Come nasce quest’amore prima di tutto per la musica, poi più specificamente per il jazz?

Massimo Distilo

«Gran parte del merito l’attribuisco al mio primo maestro, Massimo Distilo, che ho conosciuto proprio qui a Galatro quando avevo 11 anni. Lui ha sùbito creduto in me, mi ha sempre stimolato. Io avevo già conosciuto il jazz grazie al festival Rumori mediterranei, “Roccella Jazz”. da lì poi è partita un’esperienza diversa, perché mi sono trasferito a Perugia. Nel capoluogo umbro, grazie a Umbria Jazz, progressivamente ho conosciuto meglio il jazz: specie all’inizio infatti il mio impegno prevalente riguardava gli studi universitari e soprattutto al Conservatorio, dove però studiavo musica classica. A Perugia ho creato i primi gruppi, ho dato vita alle prime composizioni, per poi appunto trasferirmi a Parigi».

Grande tecnica pianistica, sicuramente: chi conosce la sua opera, però, le riconosce in particolare la sensibilità, un “tocco” molto particolare…

«Grazie! Sì, è vero… Questo “tocco” deriva dai miei studi classici: il fatto poi d’essere nato in Italia, patria della melodia legata alla cantabilità, mi ha pure aiutato a comporre delle melodie che risultano molto cantabili, per cui si rivelano molto più semplici all’ascolto. Anche se, poi, mi nutro d’esperienze assai diverse fra loro, dalla classica al jazz fino al pop: qualsiasi punto di contatto con la musica mi torna utile per poi rielaborare il tutto nella mia visione».

Parigi, un po’ la capitale europea di un certo jazz e della world music, ha rappresentato anche un “gancio” verso ulteriori collaborazioni molto prestigiose. Anche d’italiani trapiantati a Parigi, dal contrabbassista barese Mauro Gargano a Irene Amata, con cui proponete in duo un repertorio italiano, al sassofonista Francesco Bearzatti, “star” continentale del jazz…

«Ho avuto la fortuna, sia in Italia sia in Francia, di collaborare con numerosi musicisti di valore. Gargano, anche lui stabilmente in Francia da anni, fa parte del mio quartetto insieme a Cristophe Marguet e al sassofonista di Bourg-en-Bresse Jean-Charles Richard. Ma vado molto fiero di collaborazioni che ho avuto in precedenza con altri due grandi sassofonisti, Javier Girotto e, con un lungo sodalizio artistico, col mio amico Michael Rosen. A Parigi, poi, ho avuto la fortuna di conoscere Francesco Bearzatti, con cui abbiamo fatto dei concerti e presto suoneremo ancora insieme. Con tutti loro, pian piano, siamo diventati amici: oltre che musicisti superbi, sono delle persone straordinarie».

Dagli esordi discografici di Symbols, nel 2010, attraverso successi che evocano la Calabria e i suoi magnifici protagonisti musicali come Cilea mon amour si arriva al nuovo progetto in dirittura d’arrivo, Flamants Roses

«Sì, a 12 anni dal mio primo lavoro Symbols a gennaio tornerò in sala d’incisione, a Parigi, per registrare il quinto album col mio nuovo trio, ospite Jean-Charles Richard. Credo d’avere tante cose da dire, attraverso il linguaggio universale della musica».

Già. Ma in questo caso specifico?

«Ho voluto esprimere delle cose che avevo dentro, anche in termini d’impegno civile: uno dei brani è dedicato a due magistrati che per il loro valore e rigore morale hanno perso la vita, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Più in generale, nel mio nuovo lavoro ho voluto raccontare l’eterna lotta tra il bene e il male con una metafora. I flamants roses o pink flamingos, i fenicotteri rosa, vogliono rappresentare tutti coloro che lottano per un ideale, per raggiungere il loro sogno. Ecco perché il riferimento a quel che Falcone e Borsellino ci hanno lasciato; ma anche a Omero, che vuol incarnare la sete di conoscenza dell’uomo. Ai fenicotteri rosa sono contrapposti i perfidi marabouts, i marabù come li chiamiamo in Italia: gli “uccelli del male” che si cibano di carogne. Ecco, nell’album ho cercato di raffigurare queste icone, questi simboli attraverso dei personaggi, reali o immaginari».

Chi sono, oggi, i marabù?

«I marabù sono tutti quelli che vogliono ostacolare il raggiungimento dei sogni degli altri. Sono sempre stati presenti un po’ in tutte le comunità, le società, probabilmente esisteranno sempre… Per fortuna, a far da contraltare ci sono i tantissimi che, invece, si sforzano di realizzare i propri sogni, di risolvere i problemi anche altrui e di fare del bene. Ecco perché, secondo me almeno, i marabù sono degli eterni sconfitti».

Come abbiamo ricordato, uno dei suoi album è dedicato alla rielaborazione jazz della strepitosa opera di Francesco Cilea. Un compositore eccezionale, che però ha avuto la fortuna/sfortuna di nascere a Sud…

Nicola Sergio al pianoforte nella sua dimora di Galatro (RC)

«Diciamo che io Cilea ho avuto l’occasione di conoscerlo proprio studiando la sua musica. Per me è stato un onore poterla rielaborare in chiave jazz anche se, lo ammetto, inizialmente ero un po’ timoroso nell’interpolazione di un materiale musicalmente “sacro”. Di fronte a questa scelta, tuttavia, o rifiuti perché non te la senti oppure vai fino in fondo. E io ho cercato di fare così, prendendo spunto dalle note immortali di Francesco Cilea epperò mettendoci dentro per intero la mia personalità, la mia sensibilità musicale… Devo dire che il risultato è qualcosa di particolarmente ben riuscito. E poi per le sensazioni, i periodi che mi evoca Cilea mon amour, quest’album resterà sempre un punto di riferimento per me»

A proposito. A Palmi, la città di Francesco Cilea, di recente è nata anche una Fondazione che si prefigge di preservarne l’opera: suggerimenti per riuscirci al meglio?

«Come anche in altri casi analoghi, credo che tutto passi dall’elaborazione culturale, dal contatto con la gente. Convegni, incontri, concerti, entrare nelle scuole per “vivisezionare” insieme ai ragazzi le composizioni di Francesco Cilea… Del resto, qualsiasi vettore può risultare utile per tramandare la nostra cultura ultracentenaria, peraltro profondamente legata alle nostre tradizioni e alla nostra stessa storia. Ecco, se una cosa posso dirla: mi auguro che questa nuova “casa” aiuti a veicolare non soltanto la magnifica musica di Cilea ma la cultura, in generale, in un territorio che ne ha molto bisogno e che peraltro in questo senso vanta molti talenti e una tradizione incredibile».

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