La riflessione di un lettore di Tempostretto
Eravamo stati compagni di stanza durante il Servizio Militare e anche di passeggiate sul Viale S. Martino all’ora di chiusura dei negozi per pedinare qualche bella commessa. Erano gli anni 60. Lui poi si trasferì a Roma dove ha messo su famiglia e a seguire a fine carriera si era ritirato ad Avezzano dove era nato nel 1937 come il sottoscritto. Ci sentivamo telefonicamente di tanto in tanto e l’ultima volta è stata domenica 3 febbraio. Lunedì 4 il cellulare mi ha segnalato il suo numero in arrivo. Strano – ho pensato – ci siamo sentiti appena ieri. Era la moglie……
Si nasce. si cresce, si studia, si lavora e ci si occupa delle esigenze quotidiane, col pensiero rivolto principalmente alla salute e dunque tutto quello che facciamo non ha altro obiettivo che quello di allontanare il più possibile il giorno della dipartita. Si tratta di un assillo che pervade e s’insinua nella psiche umana e ne condiziona comportamenti e decisioni. Tutti conosciamo la transitorietà della vita umana e abbiamo consapevolezza che alla fine giungerà il momento del trapasso. Nel corso della vita, attraversiamo fasi temporali che toccano la nostra sensibilità, come succede quando perdiamo una persona cara. Si tratta di fasi di sofferenza che si armonizzano, a volte a fatica, con i momenti di gioia che l’esistenza riserva generosamente quasi a tutti. E non sono rari i casi di soggetti che vivono la paura della morte in maniera ossessiva, al punto da sfiorare quello stato mentale che i tecnici psicologi chiamano “tanatofobia”.
Per fatto naturale, da giovani non si ha quasi mai paura della morte. Gli specialisti della materia hanno stabilito che si prende coscienza della morte tra i quattro e i sei anni e se ne acquisisce un’idea precisa appena raggiunta l’età adulta. Nel periodo adolescenziale pare subentrino le prime avvisaglie della presa di coscienza dell’Evangelica verità, ossia che l’esistenza stessa della vita ne presuppone l’ineluttabile fine.
La domanda è: perché si ha paura della morte? Il parere quasi unanime è che la temano in modo più pressante coloro i quali tendono a non parlarne o comunque a deviare dall’argomento. Forse è proprio vero che la morte – di per sé – ha come primario elemento, la spavento se non il terrore, per il fatto che ne conosciamo l’ineluttabilità, quella che pone fine alla possibilità di vivere e lasciare i nostri cari, senza avere raggiunto gli obiettivi programmati, oppure, molto più semplicemente, di non potere più godere i piaceri della vita. Quando si è ancora giovani e sani, la morte è considerata un evento di là da venire, ma se si è afflitti da una malattia grave, il pensiero principale è quello di fare tutto il possibile per guarire e quindi postergare l’eventuale fine. In molti casi, la morte è considerata “la fine della sofferenza” come fosse una terapia che cancella definitivamente il dolore. Per i molti parenti, amici che assistono il soggetto sofferente, è accolta come fosse l’unica soluzione di un’agonia straziante, anche se – ad eccezione dei casi di eutanasia – quasi mai la morte è invocata dal malato che la sente avvicinarsi. La Scienza Medico/Farmacologica ha come principio basilare quello di lenire le sofferenze umane dovute a malattie e per i medici che la contrastano, la morte di un paziente rappresenta una sconfitta che cancella tutte le partite vinte.
Facciamocene una ragione: la morte arriva implacabile nel giorno e nell’ora segnati nel nostro destino per un appuntamento sconosciuto, che ognuno di noi spera giunga il più tardi possibile, in attesa del quale siamo “costretti” a vivere. Del resto come scrisse lo scrittore argentino Jorge Louis Borger “La morte è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare”.
Antonino Marino.
Cosa dire di me, che non temo la morte mia bensì quella di chi amo e chissà ancor di più la loro sofferenza previa ?