"Luci sull'Islam" di Dario Tomasello è un’utile guida nel mondo dell’Islam. Un'intervista all'autore.
Di recente è stato pubblicato il libro Luci sull’Islam. 66 voci per un lessico (Jouvence, 2018), un’utile guida nell’intricato e sempre poco indagato, sebbene tanto chiacchierato, mondo dell’Islam. L’autore è il messinese Dario Tomasello, professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Messina, dove coordina anche il corso di laurea in Turismo culturale e disciplina delle arti, della musica e dello spettacolo (DAMS) e il Centro Interdipartimentale di Studi sulle Arti Performative (UNIVERSITEATRALI).
Da dove deriva l’esigenza di scrivere un lessico sull’Islam?
Si tratta di un’esigenza di lungo corso. Lavoro da sempre a un impegno di questo tipo, giacché i primi fraintendimenti, su cui molti insistono a bella posta, sono proprio quelli che riguardano le incomprensioni di carattere linguistico. Inoltre, a causa delle impellenze crescenti della cronaca, molti termini tecnici della Tradizione dell’Islam sono entrati nell’uso comune senza che se ne abbia però una chiara nozione.
Nella premessa al libro, Alberto Ventura, professore di Storia dei paesi islamici dell’Università della Calabria, riconosce che in Italia ci sono già alcuni tentativi di compilazione di un dizionario sull’Islam. Che differenza c’è, dunque, fra Luci sull’Islam e altri tentativi analoghi?
Posso rispondere forse dicendo che quello che c’è di diverso risiede nell’intenzione (il che in una prospettiva tradizionale vuol dire tutto). La principale preoccupazione di questo volume è quella di sottrarre l’Islam al clamore, talora fuorviante, della cronaca, e di restituirlo alla ricchezza immensa del suo patrimonio sapienziale.
Ciò che bisogna fare oggi, particolarmente in un’epoca confusa come la nostra, è comprendere l’Islam dall’interno, cioè vivere a contatto con le comunità musulmane e parlare la loro lingua. Nella compilazione del testo Lei si è avvalso della collaborazione e del consiglio di saggi musulmani provenienti da paesi tradizionalmente islamici?
Mi sono avvalso principalmente dell’esempio diretto ricevuto da un grande maestro maghrebino, Sidi Mustafa Bassir, che ho avuto la grazia di conoscere. L’Islam si è sempre trasmesso come deposito di conoscenza, grazie alla relazione diretta tra maestro e allievo, una relazione basata sull’educazione alla misericordia e all’amore così come stabilito dal modello originario del Profeta Muhammad (su di lui la pace e le benedizioni Divine). Oggi, invece, il fondamentalismo, ahinoi, prospera sulla formazione incoerente e pericolosa dei social media che sono un veicolo tutt’altro che neutro e innocente.
L’Occidente erroneamente traduce “jihad” con “guerra santa”. È spesso ripetuto (ma poco compreso) che questa traduzione è errata. Nel Suo testo c’è una voce riferita propriamente al jihad, che viene tradotto come “lotta”. Può spiegare meglio questo punto?
Il jihad è lo sforzo di chi consacri se stesso ad un impegno costante sul cammino di Dio (fi-s-sabiliLlah). Ha assunto nel corso della storia la dimensione esteriore di un carattere bellico, ma solo nella misura di una reazione all’aggressione ricevuta e mai come obbligo che riguardasse l’intera comunità. Tuttavia, quando questo è avvenuto, esso è stato regolato da una serie severa di norme: il divieto di coinvolgere nel conflitto i civili, le donne, i bambini, gli anziani, i religiosi, i luoghi sacri (chiese, sinagoghe, etc.), persino flora e fauna. Insomma, il conflitto bellico rientra in un clima di eccezionalità che prevede il rispetto cavalleresco di tutte le creature innocenti. È chiaro che queste annotazioni stigmatizzano come ingiustificabile il comportamento farneticante e violento di tanti sedicenti musulmani moderni.
E allora i terroristi suicidi odierni?
Bisognerebbe enfatizzare come il Corano dichiari il suicidio peccato mortale, e quindi l’atto “kamikaze” di chi si uccide mandando a morte tanti innocenti è ancora più esecrabile e abominevole. A ciò si aggiunga che, secondo un detto del Profeta Muhammad (su di lui la pace e le benedizioni Divine), il jihad più grande, ovvero quello non contingente e destinato a tutta la comunità , è quello che il credente rivolge contro le passioni della propria anima, contro il proprio egoismo. Secondo la tradizione cavalleresca dell’Islam, chi non era in grado di compiere questo sforzo con successo, non poteva nemmeno pensare di affrontare con spirito di giustizia il jihad minore [cioè il vero e proprio atto militare].
Un elemento visibile del credo islamico è il velo, in arabo ḥijāb. Viene spesso associato a una forma di oppressione della donna. È proprio così?
Per nulla. Nel tempo in cui viviamo, a seguito di una sempre più insistita polemica concernente l’opportunità di esibire i simboli religiosi, si sono moltiplicate le definizioni riguardo al valore e alla funzione del cosiddetto velo islamico. Troppo spesso esse eludono, tuttavia, la sua specificità religiosa. Come in altre tradizioni – l’Induismo, l’Ebraismo, il Cristianesimo – nell’Islām il velo assume il significato di esprimere persino nell’abbigliamento la propria vocazione religiosa.
E perché questo comune malinteso?
Il rischio determinato dal fraintendimento di questo simbolo proviene forse anche dalla confusione generata dalle sue molteplici, e il più delle volte mistificanti, versioni ed applicazioni. Quando parliamo del velo dell’Islām, ḥijāb, intendiamo quel foulard, di vari colori e grandezze, che copre il capo nascondendo i capelli. L’obbligo di portare il velo è legato ai momenti rituali e all’ingresso nei luoghi sacri. La scelta di estendere questo obbligo a tutti gli altri aspetti dell’esistenza è un fatto personale che riguarda esclusivamente la donna. L’atto simbolico di velarsi, così come per l’uomo quello di portare l’abito tradizionale, rappresenta la volontà di esprimere anche esteriormente la propria vocazione religiosa. L’abbigliamento è quindi un simbolo e ha una precisa corrispondenza con la propria disposizione interiore.
Qualche esempio dalla Tradizione?
Nel Corano è esemplare l’episodio di Maria che «si ritira (‘intabadhat)» dalla sua gente, proteggendosi con un velo (ĥijābāan). Nella sūra XIX del Corano, intitolata appunto a Maria, il destino della Vergine si compie tutto tra la separazione dalla propria comunità (affinché ella possa partorire) e il suo ritorno nella comunità (con il piccolo Gesù). L’atto del nascondimento di una propria specifica condizione interiore che l’ḥijāb simboleggia, quindi, ritorna con particolare incisività a proposito dell’esempio profetico.
D’altra parte, quella islamica è pur sempre una “ri-velazione”.
Infatti. È questa la ragione per cui in molta dell’iconografia islamica, negli ambiti non specificamente legati al culto in cui è possibile, cioè, lasciare spazio all’arte figurativa, si ritrovano i profeti sovente raffigurati coperti da un velo. La Rivelazione, d’altronde, che cosa rappresenta se non la necessità di una manifestazione dell’Assoluto che prevede ancora nuovi veli, una coltre, una forma, che renda l’uomo in grado di capire ciò che altrimenti sarebbe destinato a sfuggire alla sua capacità di comprensione? Il velo diventa espressione della Misericordia divina, del riserbo necessario alla protezione del deposito della Rivelazione e della fede.