Più di mille imprese a rischio infiltrazione criminalità nella città metropolitana. Serve intanto una rivoluzione dei servizi e della burocrazia al sud
“Le mafie sono la quarta industria del Paese. In Italia sono 150mila le imprese nell’“orbita” della criminalità organizzata”. Lo sostiene l’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, Cgia, in uno studio. La cittò metropolirana si piazza al 24esimo posto per la presenza di “imprese potenzialmente connesse a contesti di criminalità organizzata”. A rischio d’infiltrazione criminale, insomma. Sono 1327 su 47.927 nella provincia con una percentuale tra il 2 e il 3%. Mette in evidenzia l’ufficio studi della Cgia: “Il volume d’affari annuo delle mafie italiane si aggira attorno ai 40 miliardi di euro l’anno. Una cifra spaventosa che vale praticamente due punti di Pil. Se effettuiamo una comparazione puramente teorica che,
tuttavia, ci consente di “dimensionare” la portata del fenomeno, il fatturato dell’industria del crimine risulta essere ipoteticamente al quarto posto a livello nazionale, dopo quello registrato dall’Eni (93,7
miliardi di euro), dall’Enel (92,9 miliardi) e dal gestore dei servizi energetici (55,1 miliardi)”.
Tra mafie nazionali e l’eterna questione meridionale
Mafie, ormai è scontato, che non riguardano solo il sud. Napoli, Roma, Milano, Caserta e Brescia risultano le realtà più a rischio. In parallelo, viene naturale accostare l’eterna questione meridionale, con una crisi economica strutturale che colpisce in modo notevole la Sicilia e la Calabria. Se nel nord d’Italia ad attirare le mafie è la potenza economica, il sud rappresenta ancora terreno fertile per la manovalanza.
“Duemila lavoratori dal futuro incerto” nell’isola, scrive la Repubblica di Palermo. Della crisi industriale fanno parte i 400 lavoratori della centrale termoelettrica A2A di San Filippo del Mela e i 150 dell’acciaieria Duferco di Giammoro. In questo contesto, rimane centrale il tema della vocazione del Meridione e della Sicilia, di Messina e della sua provincia: come invertire la rotta? E quali scelte intraprendere in termini d’imprese?
Su questo si gioca il futuro a favore di un’economia legale. E ogni decisione andrebbe presa in funzione di un obiettivo di crescita e riscatto. Politiche sociali, economiche, culturali, turistiche devono intrecciarsi con un coinvolgimento di tutte le realtà: da politica e imprendoria, spesso latitanti su temi a lunga distanza, a sindacati e forze attive dei territori.
A Messina la valorizzazione dello Stretto, e di spazi cruciali come la zona falcata e l’ex fiera; l’idea di città universitaria sempre più internazionale; l’affermarsi di un polo tecnologico riempito di contenuti validi devono sposarsi con una rivoluzione dei servizi e della burocrazia necessaria in tutto il Meridione. Senza un cambiamento, un salto di qualità costante in questi settori cruciali, si rimarrà sempre in eterna stagnazione economica. In crisi d’opportunità e di risorse. E allora continueremo a commentare l’ennesima classifica sulla qualità della vita senza un colpo d’ala.
Lo scarso livello d’istruzione e la necessità di produrre anticorpi al degrado nell’isola del lavoro nero
Poco lavoro regolare, scarso livello d’istruzione e poca formazione nelle nuove generazioni, bassa occupazione femminile, burocrazia lenta e nemica di chi vuole investire qui, politica miope e autoreferenziale sono tutti tasti dolenti nel Messinese. Elementi critici che si accompagnano alla necessità di politiche sociali all’altezza, nell’isola del lavoro nero e delle pochissime opportunità.
E, per tornare al punto di partenza, le mafie si ridimensionano lì dove esistono realtà sane e reattive e capaci di produrre anticorpi al degrado. Lì dove le periferie non vengono lasciate nel loro deserto. Solo dalla combinazione di politiche economiche, sociali e culturali all’altezza dei problemi e nodi permanenti di una società in declino può nascere qualcosa di incisivo. Di realmente alternativo alla sottocultura della morte e della sopraffazione.