Applausi per lo spettacolo adattato dalla stessa attrice, insignita del Premio Enriquez 2020, con l'attenta regia di Emilio Russo
Una Romina Mondello davvero in parte in questa pièce messa in scena lo scorso 29 luglio al Teatro di Tindari, con l’attenta regia di Emilio Russo. Strutturato anche l’apporto degli altri interpreti, da Gianluigi Fogacci, a Paolo Cosenza, passando per Nicolas Errico, Claudio Pellegrini e Debora Zuin.
Consoni anche i costumi, ove domina un abbagliante biancore, a tratti appena mitigato da toni neutri, a cura di Pamela Aicardi; le scene di Dario Gessati hanno contribuito a confermare valore alla rappresentazione, con l’ausilio dell’illuminazione messa a punto con maestria da parte di Mattia De Pace: una sorta di barca tutta attraversata da reti e cassoni sparsi, a simboleggiare l’instabile esistenza di Medea, invasa da spaesamento, come i reiterati suggestivi canti di Camilla Barbarito hanno suggerito.
Il Palazzo Reale di Corinto, che si immagina, con l’ausilio dell’antico arco di pietra del teatro fra terra e mare… bianco anch’esso, amplifica a dismisura la distanza abissale fra i personaggi fino all’irrompere della accecante luce del sole, ascendenza di Medea stessa.
Una Mondello in stato di grazia, che è stata in grado di conferire al personaggio di Medea i giusti gesti, di dosare sapientemente la voce e l’intensità degli sguardi, rendendo la mitica figura, pur nei conflitti interiori, improntata alla implacabilità.
Mondello è stata giustamente insignita del Premio Enriquez 2020 quale Miglior Attrice al debutto dello spettacolo al Teatro Olimpico di Vicenza.
L’adattamento, da lodare, è da ascrivere alla stessa Romina Mondello, che ha anche in tal guisa compiuto una operazione assai credibile.
La narrazione è dentro gli schemi euripidei, ma al contempo se ne allontana, sceglie strade più impervie, non quelle semplici della mera trasposizione del canovaccio classico.
Il percorso della Eroina più tragica e maledetta (tanto che si è giunti ad appellare “sindrome di Medea” la condizione in cui la madre uccide la prole come atto di vendetta contro l’altro genitore), la più minacciosa e potente, la cui universalità e attualità è ancora ai nostri giorni indiscussa, pare snodarsi in uno spazio neutro, bianco, ove regna solo la sua sconfinata solitudine, e perché no la sua dolente malinconia, il suo essere difforme rispetto ai valori tradizionali perché barbara, e dunque non allineata… una Medea che è capace comunque di parlare ancora alle nostre coscienze.
Ella ha complessa natura, è anche divina, e la sua meta ultima sarà sul carro alato del sole, si diceva, padre di suo padre.
Il Giasone di Alessandro Averone è in uno crudele e credulone, assai ambiguo di certo mentre tenta ancora di far leva sulla seduzione che ha avvinto a sé Medea, e tali elementi, “id est” i momenti di contatto passionale fra i coniugi, costituiscono un “quid novi” nello sviluppo della storia. Egli appare spogliato di qualsivoglia alone di positività e non appare credibile, nè genera pena, neanche nelle vesti di padre disperato per l’uccisione dei figli. E, a proposito dell’efferato omicidio della propria prole, Medea appare assai oscillante fra l’incapacità di perpetrare tale misfatto, e l’adesione, invece, al compimento, diversamente dalla progettazione della atroce uccisione della rivale, Glauce detta anche Creusa – consunta dalla veste e dalla corona avvelenate inviatele da Medea attraverso i propri figli – che, come danno collaterale, porta seco anche la violenta morte del Re Creonte, che aveva tentato di salvarla.
Oltre ai personaggi principali, una sorta di coro greco rappresentato dai servitori della casa ha riecheggiato i ferali accadimenti.
La drammaturgia è stata abilmente costruita, fra parole, musica e canto, su partitura del visionario Andrea Salvadori.
Mano a mano che il ritmo cresce Medea, da fragile creatura, si fa crudele assassina, per rivendicare il proprio ruolo femminile con forza, e potenti appaiono le rievocazioni del passato, che l’ha vista, vittima della fatale attrazione per Giasone, tradire la propria famiglia per permettergli di rubare il vello d’oro, giungendo addirittura ad aiutarlo ad uccidere il fratello Absirto.
Attraverso tali rievocazioni tragiche, (nel corso delle quali si stenta a riconoscere nel Giasone della “mise en scene” il mitico personaggio) che richiamano le eroiche avventure degli Argonauti, narrate splendidamente nelle “Argonautiche”, poema epico ellenista composto da Apollonio Rodio nel III secolo A.C., Medea trae fierezza per generare il male, si riconnette al proprio passato di maga della Colchide, si convince dell’ineluttabilità degli eventi, consapevole che la sua natura non le può consentire di lasciare impuniti i propri nemici.
Il proposito, portato a compimento, di rimanere fedele a se stessa e al desiderio di vendetta, coincide con la scelta dell’infanticidio, che comporta l’annientamento inesorabile di parte della propria identità.
In conclusione, ancora un grande risultato che infatti ha riscosso meritato plauso da parte del folto pubblico presente per la Rassegna “Umanità” del Tindari Festival, sapientemente orchestrato dal direttore artistico Tindaro Granata, con una protagonista, che ci ha reso ancor più fieri per le sue origini siciliane, e segnatamente messinesi per parte paterna.
Una riuscita Produzione “Tieffe Teatro Milano”, con distribuzione a cura di virtuosa realtà locale.