L'opera dell'artista messinese è destinata a nuove repliche. In programma anche allestimenti diversi con nuove narrazioni sempre “siciliane”
MESSINA – «Stasira non vi cuntai tutti i storii da Sicilia. Nni canusciu tanti autri. A prossima vota chi ni videmu vi cuntu. Bonanotte. Gghiuditi l’occhi magari vuiautri. E sunnati. Cu sapi chiddu chi succedi (Stasera non vi ho raccontato tutte le storie della Sicilia. Ne conosco tante altre. La prossima volta che ci incontriamo ve le racconto. Buonanotte. Chiudete gli occhi pure voi. E sognate. Chi sa cosa succede).
È con un arrivederci che si chiude il sipario su “Sikaniae”, un arrivederci che Nicola Calì, protagonista e regista della pièce, e coautore, dice per davvero, perché lo spettacolo è destinato non solo a nuove repliche ma anche a nuovi allestimenti in cui altre scene si mescolano e si incastrano per una narrazione sempre diversa. E sempre “siciliana”.
È una delle peculiarità di “Sikaniae”: una decina di atti, tutti “smontabili” e “rimontabili”, tra cui scegliere quali portare in scena a seconda del momento e del luogo della rappresentazione. A incorniciarli i due testi scritti da Calì, un prologo, che, strizzando l’occhio all’attualità, è anch’esso in costante divenire, e un epilogo nel quale all’amore per la Sicilia si lega l’amore per il teatro. «Sacciu chi si cuntu na storia, idda non finisci. Chi se c’è unu… chi mi scuta, speciammenti un picciriddu…allura dda storia non finisci mai. E così i storii da Sicilia diventunu eterne» (so che se racconto una storia, questa storia non finisce. Perché se c’è uno che mi ascolta, soprattutto un bambino, quella storia non finisce mai. E così le storie della Sicilia diventano eterne).
Giampilieri, Graziella Campagna, Dina e Clarenza
Nella versione andata in scena al Teatro Annibale di Messina, dieci anni dopo l’ultima replica e a sedici anni dal debutto assoluto, la pièce si è dipanata attraverso tre momenti della storia di Messina, scritti da Dario Tomasello, con l’atto dedicato alla terribile alluvione di Giampilieri (“’Na vuci senza luci”) che ha commosso gli spettatori, la scena in cui è l’omicida di Graziella Campagna a dire della mafia e della sua pochezza (“Città babba”) che ha dato materia di riflessione e la vicenda di un ometto che vorrebbe portarsi a letto le eroine della città dello Stretto Dina e Clarenza (“Per chi suoni le campane?”) che ha strappato sorrisi.
Sul palco il contraltare suggestivo delle percussioni live del compositore e musicista Giacomo Farina e delle basi musicali poste a collegare un atto all’altro, le belle “entrate” meta-teatrali dell’aiuto regista Carlo Piciché e dell’assistente Alessandro Santoro, l’interpretazione della protagonista femminile Rosemary Calderone hanno arricchito lo spettacolo che nella regia matura di Calì ha trovato il suo equilibrio. Non per caso i tanti applausi a scena aperta hanno punteggiato la rappresentazione che ha visto dietro le quinte l’operosità di Carmen Melania Spanò, consulente ai movimenti scenici, Daniela Cannata firma di scene e costumi, Wilma Salzillo al make up, Enrico Guerrera fotografo di compagnia.