Siamo fortunati ad essere Messinesi. Viviamo in una città di case di villeggiatura, vediamo il mare da quasi tutte le zone del territorio. Da noi la stagione balneare inizia già alle prime giornate di sole di aprile e termina ad ottobre: quando in altri luoghi si diffonde l’odore delle caldarroste, noi emaniamo ancora il profumo dell’olio di cocco. La spiaggia è casa nostra, il nostro habitat naturale, dove ci sentiamo liberi, rilassati e in vacanza, pure se riusciamo a fare una scappata in pausa pranzo col costume sotto i vestiti e la tovaglia nel bagagliaio.
È proprio sui litorali nostrani però che emergono quelle piccole variabili che ci diversificano rispetto agli altri, dando vita ad una popolazione balneare multisfaccettata. Decido anch’io di aprire le danze estive e opto per la spiaggia libera. Non per taccagneria, sarebbe un piacere pagare 15 euro per lettino, ombrellone, doccia con acqua a temperatura prossima alla glaciazione, bagnino col naso spellato che malinconicamente pensa agli amici che ballano al Pilone e altri comfort, ma è proprio nelle zone libere dalla colonizzazione dei lidi che si respira la messinesità.
E la prima zaffata arriva quando gruppi di gentildonne, probabilmente orfane del torneo invernale di Burraco, iniziano a popolare la spiaggia con un numero imprecisato di figli pro capite, dallo svezzamento all’adolescenza, con i nomi di battesimo dei candidati all’Oscar dell’ultimo decennio. Appena occupano il loro ettaro di spiaggia con ombrelloni, sdraio, passeggini e altro, portati con un’agilità a me sconosciuta, i figli si disperdono rumorosamente. Qualcuno in acqua, altri a sabotare le barche dei pescatori, chi a giocare col pallone a colpisci le teste dei bagnanti. Le madri smettono di essere tali, si disinteressano della sorte dei figli per intavolare conversazioni animate con le colleghe, tranquille che prima o poi i ragazzi torneranno a reclamare panini con la mortadella e bottiglie mantenute gelate da borse frigo che potrebbero da sole risolvere il problema del riscaldamento globale.
Io, che nella borsa tengo invece un vero e proprio kit di sopravvivenza, con una serie di pomate antiscottature, per punture di insetti, di meduse, di cavallette e di orsi bianchi, le guardo affascinata e invidiosa. Spalmo la mia creatura con creme protezione 100, infilo cappellini a violenza che il sole picchia forte, cambio costume dopo ogni bagno per evitare infiammazioni e arrossamenti. Perlustro il metro quadro di spiaggia dove giocherà mia figlia alla ricerca di pezzi di vetro, ferro arrugginito, aghi infetti e pietre appuntite. Drago la porzione di mare dove si immergerà, per scongiurare la presenza di meduse e piranha, analizzo l’acqua per testare la presenza di liquami invisibili. E mentre svolgo queste normali attività materne, lei scappa, fa amicizia con una bambina di nome Lady Gaga, che le meduse le prende con le mani e le mastica come un cow boy fa col tabacco.
Per fortuna incontro altre mie simili. Abbiamo tutte la stessa abbronzatura: spalle ustionate e pallore diffuso nel resto del corpo che si curva sui nostri pargoli a proteggerli dal male. Solitamente indossiamo costumi interi che ci permettono scatti felini senza fastidiose fuoriuscite. Se fosse legale, porteremmo una fondina con un pugnale legata alla coscia, per far fuori i pericolosi esemplari animali che attentano al benessere della nidiata. E siamo solidali. Se i nostri figli giocano insieme (abbandonando i vari Brad e Angelina) diventano un unico branco da proteggere. Abbiamo speciali radar che captano la presenza di meduse nel raggio di 500 metri e una laurea ad honorem in ingegneria per quello che riusciamo a costruire con secchiello e paletta. Sfoderiamo merende sane e bilanciate che i bambini baratterebbero volentieri con le patatine alla paprika di Kevin e Richard, ma siamo madri coscienziose. Noi manifestiamo un’innaturale esaltazione di fronte alle meravigliose imprese dei nostri figli, tipo immergersi fino all’ombelico solo con i braccioli, mentre le altre madri restano impassibili anche quando i bambini tentano di affogarsi l’un l’altro, di seppellirsi vivi a vicenda o organizzano sassaiole ai danni dei bagnanti.
Quando poi trascino borse e giochi verso l’auto, distrutta dal pomeriggio al mare, le guardo rilassarsi, incuranti che i figli siano ancora in acqua dopo una merenda degna di Camionisti in Trattoria, e penso che forse avrei dovuto chiamare mia figlia Scarlett o Charlize.
Bello l’articolo e in molte cose mi rivedo,ti consiglio di rilassarti un poco e di considerare chi ha più di un figlio e che magari a mare si lascia un po’ andare e dimentica di essere un bravo genitore. Capisco che l’educazione non va’ mai messa da parte, un rimprovero ai figli e un’occhiatina sono necessari ma cavolo un po’ di elasticità ci vuole pure.
Sì ti consiglio per il prossimo figlio di chiamarlo Angelina …..ma non Brooke ti prego