Alla svolta il processo Penelope, l'Accusa chiede 13 condanne, sentenza attesa dopo Pasqua. La retata anti droga dei Carabinieri a luglio 2024
Messina – Sono 13 condanne quelle che vuole la Procura per gli imputati dell’operazione Penelope che hanno scelto la strada del processo in abbreviato, chiedendo cioè di decidere la sentenza di primo grado già alla fine dell’udienza preliminare. Ad occuparsene è il giudice Eugenio Fiorentino che tornerà in aula per dare la parola agli altri difensori a fine aprile. Intanto il giudice ha ascoltato le richieste dell’Accusa e i primi legali coinvolti nelle difese (gli avvocati Salvatore e Gianmarco Silvestro, Giuseppe Irrera, Alessandro Trovato, Giuseppe Trovato e Jacopo Branciforte).
L’accusa vuole 13 condanne
Ecco quanto rischiano gli imputati, in base alle condanne invocate dalla PM Francesca Bonanzinga: 15 anni per Domenico Arigò, 8 anni e mezzo per Davide Luca Papa, 6 anni e 8 mesi per per Sabrina Sciuto e Michele Saja, 10 anni per Fabio Fobert, 8 anni per Antonina De Marco e Maria Militello, 4 anni per Lavinia Cananzi, Francesca Arena, Lorenzo Micalizzi e Jonathan Sergi, 8 anni per Filippo Bonanno e Benedetto Mesiti.

L’operazione Penelope risale a metà del luglio scorso. La retata dei Carabinieri ha coinvolto nove persone accusate a vario titolo di associazione ai fini di spaccio di droga, proveniente soprattutto dalla Calabria. L’indagine della Compagnia Messina Centro, coordinata dalla sostituta procuratrice Antonella Fradà (in foto), era partita dopo l’arresto, nel 2020, di Sabrina Sciuto, fermata allo sbarco dei traghetti provenienti dalla Calabria con 2 kg di marijuana in auto, nascosta in una cassetta di limoni e melograni.
Il ruolo delle donne
Secondo l’Accusa la donna, insieme ad altre compagne degli arrestati a loro volta coinvolte nella retata, abbia ricoperto ruoli operativi anche di spessore nei rifornimenti di stupefacenti in Calabria e la successiva vendita in città. Da qui il nome dell’operazione.
I summit della droga a Ritiro
La base dell’organizzazione era, secondo gli investigatori, l’abitazione di Nico Arigò a Ritiro, dove avvenivano anche veri e propri summit organizzativi Marijuana, hashish ma soprattutto cocaina le sostanze smerciate dal gruppo e lavorate da uno straniero battezzato “Pomodoro”.
