La testimonianza di una nostra lettrice, Cettina Cosenza, che lamenta il trattamento riservato a suo padre negli ultimi giorni di vita
Non so se quello di mio padre è stato un caso di malasanità e forse non ho nemmeno la forza di scoprirlo; sapere che la diagnosi non è stata corretta, capire che qualcuno ha fatto o letto male le radiografie ai polmoni, anche se il medico dell’ambulanza si è accorto immediatamente di un sibilo sospetto, sapere che i farmaci somministrati non erano quelli giusti, mi aiuterebbe poco, anzi il senso di dolore e ingiustizia che mi attanaglia lo stomaco ogni volta che penso a quel maledetto 18 aprile, al suo triste sviluppo e al suo tragico epilogo, farebbe ancora più male.
No, non so e non voglio sapere se quello di mio padre è stato un caso di malasanità ma sono certa che sia stato un caso di “malaumanità” a cui tutti potremmo essere soggetti, purtroppo.
In questa mia lettera non voglio ripercorrere le fasi terribili, gli alti e bassi di una vicenda che ci ha tenute per circa 12 ore al pronto soccorso, fuori da quella porta dietro cui si trovava mio padre, voglio però denunciare l’assenza di empatia, l’incapacità di comunicazione, l’antipatia, l’alterigia con cui alcuni medici, spazientiti, si rivolgono ai parenti che riescono ad avere poche, frammentarie e nel mio caso anche sbagliate notizie sui propri cari, che, come mio padre, arrivano in pronto soccorso non per un taglietto a un dito, ma con un codice rosso, che lo ha portato ad entrare in coma dopo 16 ore dall’ingresso in pronto soccorso e a morire, dopo 5 giorni di terapia intensiva.
Morire, mi sembra assurdo anche scriverlo, ma non è questo il luogo per celebrare il mio dolore; ognuno ha vissuto il proprio, lo so bene, ma questa lettera aperta vuole essere un invito a modificare qualcosa ad indagare a comprendere.
Non riesco a togliermi dalla testa la dottoressa, davanti al distributore automatico di snack, e mia madre, che ingenuamente chiedeva delle dimissioni di mio padre (così ci avevano detto due ore prima), che con aria scocciata rispondeva: ”suo marito accusa cefalea, non posso dimetterlo col mal di testa, lo sto trattando con cortisone”.
Dietro quella porta ci sono padri, figli, madri, mariti, dietro quella porta i medici di pronto soccorso hanno i nostri beni più preziosi per questo sarebbe corretto creare un sistema di comunicazione, con chi fuori può solo attendere e pregare. Non accetto la concessione di poche e frammentarie notizie.
Non riesco a togliermi dalla testa le condizioni in cui abbiamo trovato mio padre, quando finalmente lo abbiamo visto, alle 18.30 (dalle 9.30), ora in cui aprono ai parenti uno spazio per una visita ai pazienti in osservazione.
Non riesco a togliermi dalla testa la faccia sgomenta di quella stessa dottoressa, quando io allarmata sono andata a chiamarla, a dirle che mio padre stava malissimo, che non ci riconosceva, che non sapeva dove ci trovavamo, che non riusciva a tradurre in parole i suo pensieri, che non respirava, che urlava per i dolori al petto e alla testa, che provava ad alzarsi senza riuscirci perché era rigido. Lei si è limitata a rispondere che sì lo sapeva come stava, che lo sta osservando. Ma io non lo credo, perché solo a quel punto sono stati chiamati i colleghi del reparto neurologia, solo a quel punto hanno chiuso le visite agli altri parenti, solo allora hanno ricominciato a fare qualcosa per lui.
Sono certissima che il protocollo sia stato rispettato, sono certissima che le procedure siano state seguite, ma non mi basta.
Sono certissima che i medici di pronto soccorso siano pochi rispetto alla mole di lavoro, ma non mi basta, anzi forse proprio per questo dovrebbero permettere almeno ad un parente di stare con il proprio congiunto, almeno per casi più gravi, per richiamare l’attenzione di qualcuno.
Non accetto e non riuscirò mai ad accettare, che abbiano tenuto me e mia madre separati da mio padre, mentre lui soffriva da solo, magari credendo, nei suoi ultimi istanti di lucidità, che lo avessimo abbandonato. Questo pensiero mi tormenta.
Mi tormentano i sensi di colpa per avere atteso paziente, che mi si concedesse qualche notizia, forse avrei potuto fare di più, lo avrei perso comunque ma magari avrei potuto stringergli la mano, mentre stava male. 12 ore sono lunghe, 12 ore in quel limbo del pronto soccorso sono troppe.
Devo ammettere che accanto a questo ci sono esempi di medici meravigliosi, che non soltanto fanno il proprio dovere, ma che riescono a comunicare, a spiegare e a sostenere i parenti.
Ci sono esempi di personale di reparto, capace di piccoli grandi gesti, come quei due infermieri che di notte hanno preparato un letto per permettere a mia madre di stare accanto a mio padre, come quell’infermiere che, in terapia intensiva a Milazzo, ha fatto la barba a mio padre, rendendolo bello come tutte le mattine della sua vita, lo stesso infermiere che con gli occhi pieni di lacrime, accompagnando mio padre in camera mortuaria mi ha detto: “Sono anni che faccio questo lavoro, non mi abituerò mai”.
Forse è questa la strada, non abituarsi, non abituarsi all’assenza di empatia, non abituarsi al dolore degli altri, non abituarsi a questo atteggiamento.
Cettina Cosenza
Il medico, soprattutto di Pronto Soccorso, è una missione.
Spesso però in quei reparti vediamo solo impiegati statali in attesa di finire il turno.
maledetta sanita messinese
Senza parole…signora cara perché non ha sporto denuncia, perché non chiedere che venga accertato che non ci sia stata imperizia da parte dei medici che hanno avuto suo padre in cura ? Non lo riporterà certo in vita ma forse qualche altro ammalato sarà curato da mani competenti e amorevoli. Mi spiace molto.
Quanta verità in questo racconto….