Matteo Righetto a Tempostretto.it: «Non dobbiamo temere la natura selvaggia ma la crudeltà del genere umano»

Matteo Righetto a Tempostretto.it: «Non dobbiamo temere la natura selvaggia ma la crudeltà del genere umano»

francesco musolino

Matteo Righetto a Tempostretto.it: «Non dobbiamo temere la natura selvaggia ma la crudeltà del genere umano»

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lunedì 15 Aprile 2013 - 07:09

Ai tempi della tragedia del Vajont, Righetto ambienta il suo nuovo romanzo edito da Guanda

Un romanzo e basta. È proprio l’autore, Matteo Righetto – scrittore e direttore di Scuola Twain – a rompere gli indugi, rifiutando ogni facile etichettatura per il suo nuovo libro, La Pelle dell’Orso (Guanda editore; pp. 153 € 14). C’eravamo detti arrivederci con un romanzo irriverente e tagliente come Savana Padana che fotografava un nord-est assai diverso da quello osannato dai tg, dalla celeberrima locomotiva; Righetto torna con un libro assai diverso, lontano anni luce dalla voce pulp-noir che lo contraddistingueva (è il fondatore del movimento letterario Sugarpulp). E allora La Pelle dell’Orso è prima di tutto e senza dubbio, un voler ribadire che la vera scrittura va dove vuole e solo lo scrittore coraggioso, come Righetto dimostra d’essere, ha il coraggio di prendere e andare, in barba alle logiche del mercato che oggi determinano troppe scelte editoriali. Il dodicenne Domenico, anima candida ma dalla grande forza, è il protagonista d’un libro che richiama i grandi mostri sacri come London e Thoreau senza mai fargli il verso, narrando con una scrittura volutamente semplice, una Natura selvaggia e un Grande Orso che in esso regna sovrano, incutendo timore a tutti, salvo che al “piccolo” Domenico. Una storia di iniziazione alla vita, un duello Uomo-Natura in cui Righetto lascia intravede tracce dell’infanzia ancestrale, aiutato dalla lingua della montagna, quel ladino che orgogliosamente celebra, capace di rallentare il tempo, persino sulla pagina.

Da Savana Padana a La Pelle dell'Orso: com'è avvenuto questo passaggio di scrittura e cosa significa per te?

«Io sono uno storyteller puro, un narratore che ama inventare e raccontare storie liberamente senza farsi condizionare da sciocche etichette di genere o predefinizioni da prodotto di consumo letterario. Credo che Savana Padana abbia a suo modo raccontato il nordest in una maniera assolutamente nuova e originale: dissacrante, dirompente, politicamente scorretta. C'è chi l'ha definito pulp, chi crime, noir, western. Per me Savana Padana è una storia e basta, così come lo è La pelle dell'orso, anche se si tratta di un romanzo molto diverso sia per i toni, sia per la profondità psicologica dei personaggi e infine per la dimensione fortemente epica della vicenda. Ma che genere letterario è? Boh! E' un romanzo d'avventura? È di formazione? Di iniziazione? Io dico che è un romanzo e basta. Spero solo che sia bello e che i lettori lo apprezzino, perché l'unica definizione che si addice ai miei romanzi è quella di “narrativa popolare”».

Perché sei tornato indietro al tempo del Vajont per ambientare il tuo libro?

«Prima ancora del Vajont ci sono le montagne, le Dolomiti con le loro pareti rocciose, i loro cieli, i loro boschi, gli animali e gli uomini che vivevano lassù in quegli anni, con i loro caratteri scolpiti nel legno e nella roccia. Con i rapporti tra padre e figlio ancora cristallizzati nel tempo che fu. Poi c'è il Vajont. Come si fa a dimenticare una tragedia come quella del Vajont? Per noi veneti, ma in realtà per tutto il Paese è stata una delle pagine più tristi della nostra storia contemporanea. E' una tragedia che non dobbiamo dimenticare, soprattutto perché doveva essere evitata e poteva essere evitata. Altro che la natura selvaggia, è l'uomo il più grande e feroce nemico dell'uomo!»

Il dodicenne Domenico rievoca i personaggi alla Jack London, con un timbro chiaro, fuori dal tempo. Perché hai scelto lui?

«Domenico è un ragazzino sveglio, scaltro, forte ma anche estremamente sensibile, con un bisogno d'affetto incolmabile e una grande voglia d'avventura. Per certi versi Domenico siamo tutti noi a dodici anni, solo che lui porta in in sé qualcosa di epico, di eroico e insieme di tragico, aspetti profondi che lo rendono diverso dai dodicenni che eravamo noi. Sta tutto qui il suo ruolo, in questo suo status letterario eroico, ed è per questo che lo seguiamo con passione tra i boschi, tra le sue mille difficoltà. Ed è per questo che lo amiamo. Flannery O' Connor disse: “Chiunque sia sopravvissuto alla propria infanzia, possiede informazioni sulla vita per il resto dei propri giorni.” Esattamente questo succede a Domenico. Egli “sopravvive”. E da quel momento nulla sarà come prima».

All'inizio non è sbagliato credere che Domenico possa non aver paura del Grande Orso perché magari gli diventerà amico, complice, piuttosto che acerrimo nemico. Volevi un duello in pagina fra uomo-natura e intergenerazionale?

«Il duello fra Uomo e Natura da un lato e fra Uomo e Leggenda dall'altro è senza dubbio il tema centrale della prima parte del romanzo. Ma poi tutto cambia…»

Sin dalle prime pagine intermezzi con l'uso del dialetto, in modo garbato. Come direttore di Scuola Twain credi sia davvero importante non perdere questo tesoro linguistico?

«Tengo a precisare che non si tratta di dialetto, ma di una vera e propria lingua. Il ladino. Una lingua antichissima ancora parlata da quelle parti dove il tempo sembra scorrere molto più lento che quaggiù, a valle. Sulla questione linguistica rischiamo di aprire un discorso troppo lungo e complesso. Comunque sì, credo sia importante non perdere il preziosissimo tesoro che ogni minoranza linguistica offre».

Francesco Musolino®

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