Nasce il centro studi Oikos. Intervista al direttore Spartaco Pupo

Nasce il centro studi Oikos. Intervista al direttore Spartaco Pupo

Giacomo Maria Arrigo

Nasce il centro studi Oikos. Intervista al direttore Spartaco Pupo

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giovedì 28 Maggio 2020 - 08:00

Nasce Oikos – Centro studi sul Noi politico. Abbiamo intervistato il direttore Spartaco Pupo, professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria.

Nasce Oikos – Centro studi sul Noi politico (qui il sito web), una realtà accademica che accomuna anche chi accademico non è, in un desiderio di dialogo con tutte le istanze civili e politiche. Il direttore è Spartaco Pupo, professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria. Lo abbiamo incontrato per rivolgergli qualche domanda.

Da dove nasce l’esigenza di fondare un centro studi come Oikos?

Da un interesse di ricerca. Da una ventina d’anni mi occupo dei “Noi” in politica, dalla comunità alla nazione, e di alcuni pensatori, tra filosofi, sociologi e politologi, che in Occidente ne hanno proposto una definizione. Un istituto di ricerca interdisciplinare e indipendente sarà il luogo privilegiato di discussione tra una settantina di studiosi dai differenti interessi disciplinari accomunati dal confronto sulla realtà storica ed empirica dei “Noi” in cui vive e agisce la persona umana in relazione con la politica.

Cosa si intende con “Noi”?

È presto detto. Si tratta delle “lealtà” comunitarie, le identità, le diverse forme di appartenenza e cittadinanza a livello sia locale che globale, le varie semantiche dei “Noi” come narrazioni collettive e pre-politiche di stampo territoriale e consuetudinario, oltre che come forme di organizzazione politica. Partendo dall’analisi dei fenomeni sociali e politici, il confronto interdisciplinare fornirà possibili chiavi interpretative sulle sfide dell’oikos, dal greco “casa”, tenendo conto delle implicazioni socio-politiche del sentirsi “a casa” e delle ideologie che l’accompagnano e l’avversano.

Perché solo raramente si parla di questa realtà comunitaria, di questo “Noi”?

L’idea di fondo che emerge dai miei studi è che nei comportamenti razionali e di associazione volontaristici, cui la società degli individui occidentale si è sempre più abituata, la comunità appare come un “residuo” che le burocrazie istituzionali e i mercati globali si impegnano a dissolvere in cambio di benefici per i singoli individui in termini di benessere materiale. Qualsiasi rievocazione del valore comunitario è interpretata o come nostalgismo e sciovinismo o come una forma di neo-collettivismo. Da qui l’affermazione di una nuova antropologia secondo la quale l’uomo per ottenere la sua libertà è chiamato a staccarsi dai costumi ancestrali, dai legami organici e comunitari, come se il carattere principale di ciò che è veramente umano coincidesse con lo sradicamento dalla “natura”.

Una libertà opposta alla natura, perciò. Quale sarebbe la soluzione a ciò?

Intendiamoci, non si tratta di negare il valore della libertà individuale, che resta irrinunciabile in termini di rivendicazione di diritti, libera iniziativa economica, stato di diritto, ecc., ma di mettere in discussione l’automatismo per cui questa emancipazione debba necessariamente coincidere con lo “sgombero” dalla sfera del soggetto individuale di qualsiasi riferimento comunitario. È vero che l’individuo nasce libero, ma non certo nel deserto o nello spazio vuoto. Nasce in un dato territorio, fatto di costumi, tradizioni, destini, valori spirituali, obbligazioni e doveri nei confronti dei suoi “vicini”, insomma di lealtà pre-politiche che non è possibile negare, come fanno alcuni che ci chiedono addirittura di “astrarci” dalle nostre identità per favorire una convivenza su basi esclusivamente razionalistiche. Lo trovo immorale, oltre che socialmente e politicamente pericoloso.

È ancora possibile riferirsi a un “Noi” nell’ambito della vita politica?

Personalmente sostengo che quando si tratta di definire l’identità del Noi, la comunità appare come un qualcosa che appartiene a tutti, poiché è patrimonio della tradizione, da riscoprire nella sua valenza storica e da valorizzare nel suo significato autentico, che è quello di “corpo intermedio” tra l’individuo e lo Stato, gruppo di condivisione di interessi e finalità particolari, in cui l’individuo è libero di realizzare qualsiasi aspirazione e progetto di vita.

Può essere utile a questo proposito riprendere la proposta del comunitarismo statunitense degli anni ’70?

Non credo affatto. Il comunitarismo, orfano della morte ideologica del marxismo, ha perso la sua battaglia contro il liberalismo perché ha confuso la comunità con lo Stato. La denuncia comunitarista, infatti, nascondeva il tentativo di colmare, col pretesto della comunità, il vuoto ideologico lasciato dal comunismo. Il senso del Noi comunitarista era una specie di scorciatoia ideologica per la ripresa della ottocentesca battaglia contro il liberal-capitalismo. Come a dire: dal comun-ismo al comun-itarismo. La matrice semantica, in fondo, era la stessa: il vecchio, caro e sempre attuale bene “comune”, indissolubilmente legato al valore dell’uguaglianza. Dall’uguaglianza, spesso uniformante, più che unificante, i comunitaristi ricavavano la definizione stessa di comunità, intesa come insieme indefinito di soggetti uguali e chiamati a “cooperare”. Un comunitarismo collettivista e liberticida come quello non è proponibile.

Quale altra declinazione del Noi è ancora spendibile?

Per “comunità” si può intendere anche la nazione, ma nel significato anti-giacobino del termine, ossia come garanzia per la democrazia, giacché include gli interessi e le aspettative di classi sociali e gruppi politici, e come “comunità di comunità”, unità di varietà e diversità, collante omogeneo di quei “piccoli patriottismi”, come li chiamava Burke in aperta contrapposizione con le tendenze omologanti della Rivoluzione francese da cui storicamente è partita la caccia alle comunità, additate come nemiche dello stato accentratore. Gli stati che hanno sostituito il potere monistico e onnicomprensivo della burocrazia alla pluralità delle autonomie comunitarie, dalla famiglia al partito, dal sindacato alla chiesa, dalla lealtà territoriale al club, si sono dissolti.

Eppure oggi parlare di appartenenza a una comunità culturalmente caratterizzata, come lo è quello di nazione, è spesso controproducente.

Dipende da un problema di cui tenere conto nelle analisi sulle forme di appartenenza. Si tratta della “oicofobia”. Oggi si fa un gran parlare della paura dell’“altro” o del “diverso” come sentimento regressivo che sta alla base della “xenofobia”, una malattia sociale che viene cavalcata da varie forze e culture politiche. Si parla poco, invece, dell’oicofobia, cioè della paura dell’“oikos”, ossia della “casa”, del proprio retaggio culturale, che sembra essere diventata il malessere tipico di un certo mondo politico-intellettuale occidentale e che è rimasto sino a oggi pressoché ignorato negli studi sociali e politici. Dall’oicofobia come paura della propria identità, come concezione distorta della politica che tende a escludere l’importanza del Noi, non è immune buona parte del mondo culturale italiano, per ragioni per lo più legate al pregiudizio ideologico maturato in seguito agli eventi che hanno caratterizzato la vita sociale del nostro Paese prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale. Ma un impulso decisivo alla propagazione del malessere oicofobico è venuto anche dall’affermazione di filoni di pensiero che dell’anti-nazionalismo hanno fatto un punto cardine della propria proposta politica.

Quali sono i riferimenti intellettuali del Centro? Mi riferisco a eventuali ideali “padri fondatori” a cui Oikos si ispirerebbe.

Ciascuno dei settanta studiosi che vi hanno aderito ha i suoi riferimenti, le sue “provenienze”, i suoi maestri. Un possibile pantheon di Oikos potrebbe essere costituito da quegli autori che si sono a vario titolo posti il problema del Noi nel pensiero moderno e contemporaneo, tanto nell’area angloamericana, come Burke, i moralisti scozzesi e Hume, Nisbet, Scruton, MacIntyre, Voegelin, quanto nell’area continentale, come Tönnies, Schmitt, Tocqueville, De Maistre, Lamennais, Maurras, Mounier, senza sottovalutare il contributo italiano dei vari Mazzini, Gentile, Olivetti e Mortati.

Quali attività svolgerà il centro? Ci sono eventi in programma?

Oikos si avvale di strumenti di analisi, quali convegni scientifici, incontri pubblici, webinars, presentazioni di libri, film e documentari, e di divulgazione editoriale, quali articoli sul proprio sito web, letture online, saggi su rivista e volumi collettanei. Una riflessione sul Noi è urgente in tempi di pandemia. Le forme di socialità a distanza, le relazioni di diffidenza, sospetto e delazione tra individui appartenenti alla medesima comunità mettono in discussione drammaticamente tutte le realtà della prima persona plurale, dalla famiglia al parentado, dal paesino alla città, dalla associazione tra amici alla parrocchia, dalla socialità sportiva alla appartenenza nazionale. Il Noi, già di per sé in crisi, oggi rischia di essere seriamente compromesso. Quindi rivolgeremo la nostra attenzione in più forme a questa urgenza.

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