Una testimonianza di Simona Moraci, insegnante messinese e autrice del romanzo "Duecento giorni di tempesta"
Pubblichiamo un testo dell’insegnante e scrittrice messinese Simona Moraci (nella foto).
La prima volta nella cosiddetta scuola a rischio
La prima volta che sono arrivata nella periferia di Catania, mi sono chiesta come fosse la scuola in quartiere “difficile”. Cosa avrei trovato oltre la soglia di un mondo a me sconosciuto. La risposta è semplice: bambini. Rabbia e innocenza, banchi scagliati e vetri rotti. Urla, pianti e sorrisi. É questa la chiave: farli sorridere. Ma lo avrei imparato dopo.
Da diversi anni insegno Lettere nelle scuole “a rischio”, così vengono considerate quelle dei quartieri difficili, preda della criminalità. All’inizio è stato un caso, adesso è una scelta. La mia prima classe è stata una seconda media, composta solo da ragazzi ripententi. Tutti maschi, tranne una, già madre di un neonato. La chiamavano la classe “sperimentale”, cioè “disperata”. Ricordo di essere entrata sorridendo, mentre mi fissavano diffidenti, pronti a sfidarmi, a cercare il mio confine. Sono stati mesi travagliati: perché nessuno pensava di sedersi dietro al banco, ma sopra. Non c’erano né libri né quaderni. E la rissa era sempre dietro ad ogni parola, ad ogni gesto. Poi un giorno, tra urla e pugni alle porte, una frase mi ha aperto la strada che mi avrebbe condotto sino al loro cuore: “Ma tu oggi che mangi?”. Avevano fame. In questi quartieri i ragazzini, spesso, non hanno da mangiare: alcuni vivono con parenti anziani, altri con qualche fratello. Spesso i genitori non ci sono. E da allora, in classe, sono entrati biscotti, torte, panini e sorrisi.
Una battaglia giornaliera per conquistare l’attenzione dei ragazzi
Ma io ero precaria e li ho dovuti lasciare. Il ruolo, qualche anno dopo, mi ha regalato invece l’esperienza più intensa della mia vita, in una scuola ai confini del mondo, dove l’impensabile accadeva. Giorno dopo giorno, in croce sulla porta per non farli scappare, a schivare forbici e oggetti scagliati come in un tiro a bersaglio, ho scoperto la mia forza. E cosa significa insegnare. Là dove non ci sono regole, non esiste scolarizzazione, e nessuno ha mai visto un libro.
È stata una tempesta emotiva, un percorso di crescita personale, una lotta contro sé stessi. Quello che mi ha spinto a scrivere i miei “Duecento giorni di tempesta” (Marlin editore), il mio romanzo. In un contesto in cui la classe non è un luogo di socialità ma di scontro, si sopravvive solo se si fa squadra con i colleghi. E io, in questo, sono stata fortunata. Il primo giorno di scuola, uno dei tanti, ho varcato la soglia della classe sotto una pioggia di bottigliette d’acqua, piene, naturalmente. Mi ha salvata un collega, strascinandomi con sé dietro la cattedra.
E giorno dopo giorno, scontro dopo scontro, ho cercato una via che conducesse al loro cuore: l’amore è l’unica via per uscire dal buio. Me l’ha detto la mia dirigente, in un giorno in cui ho pensato di arrendermi, di “mollare”. In cui anch’io era fatta di lacrime e rabbia. E io ci credo ancora. E le sono grata, per avermi aiutata ad avere coraggio. Ho scelto chi voglio essere. E voglio essere un’insegnante. Tra giorni invivibili e momenti felici. Perché, nelle scuole “difficili”, scoppiano risse, se vola un banco si deve cercare di proteggere la classe, facendo da scudo, strascinandoli via. È una battaglia giornaliera per sradicare una mentalità che si manifesta attraverso comportamenti disfunzionali, al limite dell’immaginabile. Perché, come tanti altri, scelgo di restare? Perché, anche dopo anni, i miei alunni mi chiamano ancora e mi dicono: “Prof, mi manchi. Ma lo sai che sei il mio sole?”
gli amori infiniti sono quelli impossibili
Peccato che e’ un romanzo….non e’ una critica…non amo i romanzi ma amo tutti quelli che amano la vita anche con mission impossible…..BRAVA!
Romanzo scritto con l’anima di una insegnante come si deve.