Pene dai 2 ai 15 anni e una sola assoluzione tra gli arrestati di luglio scorso dai carabinieri. Esclusa l'aggravante mafiosa. I giudice non crede all'imprenditore della ristorazione.
Ci sono cinque condanne in “casa” dei nuovi reggenti del clan di Santa Lucia sopra Contesse. O almeno così li considerano gli investigatori, che lo scorso 18 luglio hanno fatto scattare il blitz con 8 arresti, battezzato Polena.
Oggi il Giudice Simona Finocchiaro ha chiuso il processo abbreviato e ha deciso cinque condanne, in alcuni casi è stata più severa anche rispetto a quanto aveva sollecitato la Procura. Per altri aspetti, invece, il giudice ha “alleggerito” il castello delle accuse: in sostanza il giudice ha ritenuto provati i casi di spaccio, alcuni episodi di usura, altri di estorsione. Per tutti è però stata esclusa l’aggravante dell’articolo 7, ovvero il legame con l’associazione mafiosa, e ha fatto cadere una importante estorsione.
Ecco il verdetto: 5 anni per Antonio Caliò, 6 anni e 4 mesi per Giuseppe Cambria Scimone, 12 anni per Antonio Cambria Scimone, 15 anni e 8 mesi per Tommaso Ferro, 2 anni e 2 mesi per Lorenzo Guarnera. Assolto totalmente Alfio Russo. Quasi tutti hanno incassato assoluzioni parziali.
I giudici hanno invece escluso l’estorsione in danno dell’imprenditore Giannetto, l’ex patron del “Toro Nero” e di altre note attività di ristorazione a Messina – assolvendo da questa accusa Russo e Giuseppe Cambria Scimone.
Alla fine degli accertamenti, i Carabinieri ipotizzavano anche per lui il concorso esterno al clan di Santa Lucia. L’imprenditore ha poi rilasciato diversi verbali agli inquirenti, definendosi vittima della prepotenza degli esponenti legati al clan. Al processo si era quindi costituito parte civile. Ma ora la sua posizione cambia.
L’imprenditore è uno dei super teste di un altro importante processo, quello scaturito dall’operazione Beta e che vede alla sbarra i Romeo e i loro referenti nel mondo affaristico e istituzionale messinese.
La Procura – in aula i PM Maria Pellegrino e Liliana Todaro – aveva sollecitato condanne dai 2 ai 10 anni di reclusione. –
Gli imputati sono stati difesi dagli avvocati Giuseppe Bonavita, Salvatore Silvestro e Alessandro Billè, che hanno annunciato ricorso in appello. Intanto, però, una parte delle accuse le accuse contro vecchi e nuovi nomi del potente clan della zona sud, trovano una prima cristallizzazione in questo verdetto.
C’è un primo sigillo sulle conclusioni delle indagini dei Carabinieri, quindi, che hanno ricostruito i più recenti affari, dal 2015 ad oggi, nella zona sud cittadina. Indagini che confermano come ad essere ancora il riferimento indiscusso della famiglia è Giacomo “Giacomino”Spartà, in carcere ormai da anni. Malgrado la reclusione, sempre a lui facevano riferimento nomi del calibro di Raimondo Messina e i fratelli Scimone.
Il troncone principale del processo è comunque ancora tutto da definire: il dibattimento per quelli che hanno scelto il rito ordinario, infatti, partirà a fine del mese prossimo.
Tra gli affari trattati trattati, il fiorente settore delle sale scommesse e del gioco d’azzardo, l’usura e il pizzo agli esercizi commerciali della zona sud. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali e i racconti dei pentiti – in particolare dell’ex “picciotto” Daniele Santovito, hanno svelato che Raimondo Messina e i Cambria Scimone non si limitavano a riscuotere il pizzo e imporre assunzioni, ma condizionava la vita delle imprese, per garantire il buon andamento di quelle proprie. Per eliminare la concorrenza al bar “Il Veliero”, ad esempio, intestato ad un familiare ma sempre in mano a Messina, malgrado i guai con la giustizia, un pasticcere che operava nella stessa zona è stato obbligato a interrompere la vendita di bibite e caffè. Un grossista di alimentari non ha più fornito carni ai ristoranti perché disturbava l’attività di macelleria di uno degli indagati.
L’organizzazione gestiva anche le estorsioni ai giocatori, frequentatori di alcune sale gioco cittadine controllate dalla cosca. In un caso alcuni degli indagati hanno costretto il titolare di una sala scommesse a cedere loro la proprietà, a causa delle difficoltà economiche che aveva, pretendendo anche il pagamento di 5mila euro, per una serie di giocate effettuate con denaro “a credito” delle società di scommesse.
Altri giocatori sono stati costretti a pagare i debiti con i gestori delle sale dietro minaccia di ritorsioni e violenza. Gli uomini del clan prima minacciavano apertamente di ritorsione – “ti spezzo le gambe”, hanno detto ad una vittima, in una conversazione intercettata” – poi se il malcapitato non pagava facevano leva esplicitamente al rango criminale degli esponenti del clan, per convincerli a pagare.
Una donna, indebitata fino al collo per aver perso al tavolo da poker, ha ripagato una perdita di 6 mla euro con 10 mila euro in contanti, un anello da 6mila euro e un orologio da 4 mila. Un noto gioielliere cittadino, per far fronte a piccoli debiti con i fornitori, ha chiesto un prestito di 4 mila euro e ha dovuto restituire agli usurai 8500 euro in sei mesi, di cui 4.500 a titolo di interessi.