Buoni il soggetto e l’ironica sceneggiatura, entrambi di Woody Allen, solidi e ben riusciti; le riprese fotografiche di Javier Aguirresarobe risultano eleganti e fluide, le malinconiche note jazz di Christopher Lennertz, come sempre valide… Ma sopra tutto troneggia il gigantesco personaggio di Jasmine, quasi emula di Blanche Dubois nel mitico “Un tram che si chiama desiderio”
“C’è un limite ai traumi che una persona può sopportare prima di mettersi ad urlare in mezzo alla strada”… “Potete evitare di litigare, non lo sopporto, il mio xanax non sta funzionando” … “Con chi dovrei andare a letto per avere un vodka Martini?” … A parlare è la triste Jasmine, personaggio femminile complesso, reso con maestria ed eleganza nell’ultima pellicola di Woody Allen, drammatica rappresentazione di una caduta – che si snoda attraverso continui flashback – della fragilità della protagonista e delle figure comprimarie, di disillusione tragica, quasi a testimonianza dell’autore sulla crisi di una società cosiddetta benestante, che appare smarrita e sull’ambiguità morale del mondo dell’alta finanza.
Jasmine è sofisticata, disturbata, arrogante, arrivista, confusa e perennemente insoddisfatta, mente su tutto a tutti e, prima ancora, a se stessa, anche il suo nome “gelsomino notturno” è falso ed edulcorato rispetto al reale e comune “Jeanette”. Il suo passato la perseguita… ma non la cambia (arriva in volo da New York a San Francisco in prima classe).
Jasmine è divenuta la caricatura di sé stessa, un essere umano totalmente incapace di imparare dai propri errori.
Jasmine buca lo schermo immersa in monologhi indimenticabili (come quello della scena finale, seduta sulla panchina di un parco) o si lancia in sproloqui (come quello riservato agli interdetti nipotini), in realtà narcisisticamente indirizzati a se stessa e scollegati dalla realtà.
Cate Blanchett, dallo sguardo dolente e deluso e dal volto devastato dal malessere psicologico è perfetta interprete di un duplice ruolo, che appare costruito su misura, prima quale affascinante reginetta mondana di Park Avenue, moglie di un ricco finanziere, impegnata in una scalata sociale che lascia in ombra ovvie “operazioni” discutibili e relazioni extraconiugali del compagno e, in quella che appare una sua seconda vita, nel disincanto della nuova condizione, che trova caratterizzazione in una periferia di San Francisco, che è emotiva, prima ancora che logistica, e nella necessitata convivenza nell’umile dimora dell’ordinaria sorella adottiva, Ginger (una straordinaria Sally Hawkins), insignificante commessa in un supermarket. Ginger continua a ripetere di aver avuto fin da piccola geni meno buoni di Jasmine. Harold, “Hal”, il superficiale e truffaldino marito, che trova soluzione nella morte ed è punito dalla protagonista con denuncia all’FBI degli intrighi perpetrati solo al momento dei rivelati tradimenti, è egregiamente reso da un vanesio Alec Baldwin. Bobby Cannavale è Chili e Peter Sarsgaard Dwight Westlake, rispettivamente nei ruoli del nuovo fidanzato di Ginger, divorziata da Angie, il rustico, già vittima di “Hal” e del ricco vedovo Dwight Westlake, ultima non riuscita chanche di Jasmine per ritrovare una splendida esistenza, fallita per le scoperte menzogne. Il molestatore di Jasmine, il dr. Flicker, suo squallido datore di lavoro, è interpretato da Michael Stuhlbarg.
Buoni il soggetto e l’ironica sceneggiatura, entrambi di Woody Allen, solidi e ben riusciti; le riprese fotografiche di Javier Aguirresarobe risultano eleganti e fluide, le malinconiche note jazz di Christopher Lennertz, come sempre valide… Ma sopra tutto troneggia il gigantesco personaggio di Jasmine, quasi emula di Blanche Dubois nel mitico “Un tram che si chiama desiderio”, sempre sopra le righe e fino alla fine mentitrice sopraffina (soprattutto a se stessa). Jasmine è un po’ il compendio di tutti i personaggi di Woody Allen, di quelli resi da Mia Farrow e della Gena Rowlands in “Un’altra donna”, ma è una spanna sopra rispetto a tutti per maturità di scrittura e resa interpretativa.
Le fa da splendido contraltare Ginger, quasi emula della Stella, sorella di Blanche, che nell’accettazione della propria semplice realtà trova un principio di realizzazione.
Allen è tornato a splendere nella sua essenzialità, calibratezza e tensione antropologica, che, per fortuna offuscano la consueta rima spesso alquanto narcisistica. Questo anche grazie alla sua musa, una Cate Blanchet che non si dimentica, nel ruolo di una donna che non può più essere quel che vuole e non sa divenire ciò che deve, restando uguale a se stessa per i 98 minuti del riuscito lungometraggio.