Il passato è colonna portante dell’identità perché solo attraverso la conoscenza di ciò che siamo stati possiamo capire cosa siamo oggi
Giuseppe Ruggeri inaugura con l’articolo che segue una rubrica che ha voluto chiamare “Le colline di Antonello” (come un suo breve romanzo edito qualche anno fa), ove le colline rappresentano il simbolo della nostra città che cercherà, in più riprese, di tratteggiare in alcuni dei suoi aspetti più significativi e, dunque, identificativi. Sulle colline si possono costruire case o buone idee. Le prime le violentano e le deturpano, privando i cittadini dell’ossigeno di cui hanno bisogno. Le seconde rendono la città migliore e a misura d’uomo.
L’importanza di mantenere vivo il ricordo del terribile sisma che nel 1908 cambiò la storia di Messina viene spiegata dal ruolo prezioso che da sempre svolge la memoria, senza la quale – ci ricorda Vitaliano Brancati – “la nostra mente sarebbe sottilissima come una lastra priva di spessore”.
La memoria è il filo che ci collega all’oceano della vita e di tutte le vite che ci hanno preceduto, ed è pertanto solo attraverso essa che ci si può riconoscere, anche a distanza di secoli, quali individui appartenenti a un comune contesto sociale.
Da qui la funzione “civilizzatrice” di codesta memoria, perché mettere a fuoco il nostro passato equivale a renderlo disponibile a un’attenta sua valutazione nel presente, onde non ripeterne gli errori e assumere ad esempio i comportamenti virtuosi delle generazioni che ci hanno preceduto. Piuttosto che fornire l’alibi a un’esaltazione sterilmente campanilistica, questa paziente, consapevole riappropriazione dovrebbe ravvivare in noi le medesime spinte idealistiche che a suo tempo hanno sostenuto tali comportamenti.
La Messina pre-terremoto era una città fervente di scambi commerciali e culturali grazie all’attività del suo porto che occupava una posizione baricentrica nel bacino mediterraneo e vantava un centro storico prestigioso oltre che esteticamente gradevole dal punto di vista urbanistico. I suoi palazzi e i suoi monumenti erano conosciuti in tutto il mondo, come attestano i viaggiatori che nelle diverse epoche la visitarono e ai quali la città presentava subito il suo “biglietto da visita” esibendo la scenografica “Palazzata”, rasa al suolo e ricostruita a seguito dell’altro rovinoso terremoto del 1783. La sua Università, fondata nel secolo quindicesimo, visse il periodo del suo massimo fulgore nel Seicento quando v’insegnarono maestri e scienziati come Camillo Golgi e Marcello Malpighi. Il viale Principe Amedeo (oggi via Vittorio Emanuele), sontuosamente arricchito dal leggiadro “Chalet a mare”, era tutto un susseguirsi di fiori, alberi e piante secolari che accoglievano le passeggiate – a piedi o in carrozza – dei suoi abitanti.
Il culto della storia locale costituisce di per sé un elemento fondante dell’identità collettiva, senza la quale nessun gesto o azione avrebbe alcun significato finendo dunque per poggiare sul nulla. Il passato è colonna portante dell’identità perché solo attraverso la conoscenza di ciò che siamo stati noi possiamo capire cosa siamo oggi, al fine di pianificare un futuro consono alle nostre peculiari capacità. Lo sguardo sulla storia contribuisce insomma a una ricerca più approfondita del “milieu” ambientale e culturale in cui siamo immersi e delle sue interrelazioni con gli individui che ne fanno parte.
In particolare, la memoria storica del terremoto del 1908 rappresenta un decisivo banco di prova per saggiare quali siano le nostre capacità di difesa nei confronti di un evento la cui portata traumatica ha talmente sconvolto l’immaginario collettivo da determinare la generale rimozione del ricordo che vi è connesso. Affrontare questo ricordo permette di scandagliare le ragioni che non ci permettono di guardare con sufficiente lucidità a quanto è avvenuto, e di conseguenza risolvere l’annoso problema del confronto con un mondo che, se non c’è più, pure torna prepotentemente – quanto meno a livello inconscio – a rappresentarsi in tutta la sua pregnanza simbolica.
La perdita di senso connessa alla morte e, in genere, a ogni cancellazione materiale che ci colpisce potrebbe così virare verso una vera e propria riacquisizione culturale in grado di migliorare – e non di poco – il nostro atteggiamento nei confronti tanto di noi stessi quanto della comunità di cui facciamo parte piena e integrante.