Pianelli e l’Alinde Quartett – un quintetto d’archi per due capolavori del romanticismo tedesco.

Pianelli e l’Alinde Quartett – un quintetto d’archi per due capolavori del romanticismo tedesco.

Giovanni Francio

Pianelli e l’Alinde Quartett – un quintetto d’archi per due capolavori del romanticismo tedesco.

giovedì 04 Novembre 2021 - 08:55

Un pregevole Quintetto d’archi è stato protagonista, domenica scorsa al Palacultura, del secondo concerto della stagione musicale della Filarmonica Laudamo. L’Alinde Quartett, formato da Eugenia Ottaviano e Guglielmo Dandolo Marchesi al violino, Erin Kirby alla viola, Bartolomeo Dandolo Marchesi al violoncello, e il notissimo violoncellista Alessio Pianelli, hanno offerto al pubblico messinese un programma di grande interesse e levatura: la trascrizione del “Concerto in la min per violoncello e orchestra” di Robert Schumann, e soprattutto, il “Quintetto in do magg. D 956 op. post. 163” di Franz Schubert.

Il Concerto per violoncello e orchestra, Op. 129, si compone di tre movimenti sviluppati senza soluzione di continuità: “Nicht zu schnell” (non troppo veloce); “Langsam” (Largo) e “Etwas lebhafter. Sehr lebhaft” (Un po’ più vivace. Molto vivace). È un tipico concerto ottocentesco, che si caratterizza soprattutto per lo splendido tema iniziale, squisitamente romantico, perno di tutto il concerto. Lo sviluppo del tema, tuttavia, delude le aspettative generate da un siffatto incipit, per cui la critica generalmente non riconosce nel concerto una delle opere più riuscite del compositore tedesco, rimanendo comunque una pietra miliare nell’ambito della letteratura, di certo non cospicua, riservata a questo organico. La trascrizione per quintetto d’archi non ha fatto rimpiangere troppo la versione originale per orchestra, e l’esecuzione si è distinta in particolare per la straordinaria bravura di Alessio Pianelli nella qualità di violoncello solista, assoluto protagonista dell’intero brano.

Il Quintetto in do maggiore D956, op. postuma di Franz Schubert, per due violini, viola e due violoncelli, appartiene alle supreme creazioni della musica da camera di tutti i tempi, e costituisce in tal senso il testamento spirituale di Schubert. Composto probabilmente uno o due mesi prima della precocissima morte del musicista, vide la sua prima rappresentazione ben ventidue anni dopo, al Musikverein di Vienna. Ascoltando l’incipit del lunghissimo primo movimento “Allegro ma non troppo”, dalla durata di oltre venti minuti (ma parliamo di quella divina lunghezza schubertiana, come definita da Schumann) con la sua lenta e quasi maestosa introduzione, che precede il bellissimo tema principale, si ha immediatamente l’impressione di stare per assistere a qualcosa di grandioso. Il tema subentra del tutto naturalmente, come per magia, quasi una cantilena dolcissima, serena ma velata di quella malinconia propria dell’ultimo Schubert. Lo sviluppo è denso di accenti ora drammatici, quasi a ritmo di marcia, ora dolcissimi, e il tessuto armonico si arricchisce di quella forma antica, il contrappunto, che Schubert aveva cominciato a studiare sul finire della propria parabola musicale, e che purtroppo non ci è dato sapere a quali risultati lo avrebbe condotto. Commovente è la ripresa del tema dopo l’intreccio dello sviluppo, introdotta dal ritorno dell’introduzione a sua volta preceduta da splendidi arpeggi del violoncello. Dopo un movimento che raggiunge vette così elevate sembrerebbe impossibile che la musica si mantenga allo stesso livello, e invece il momento centrale e culminante della composizione deve ancora venire.

L’”Adagio” rappresenta forse l’apice del Quintetto: dopo una prima parte ieratica, solenne nella sua mistica bellezza, quasi statica, scandita dai “pizzicato” del violino e del violoncello, ecco irrompere con violenza uno dei temi più struggenti mai composti, concitato, e tutto il movimento assume un carattere di fatale tragicità. Lo “Scherzo”, così come l’”Allegretto” finale, pur interrompendo l’insostenibile tensione creata dall’Adagio, si mantengono ad altissimi livelli, con quei ritmi di danza austriaca, quelle atmosfere proprie del clima Biedermeier, appartenenti a molte composizioni giovanili di Schubert, un mondo spensierato, ma che ora avvertiamo come trasfigurato, con un’ombra di inquietudine, di amarezza (si pensi in particolare all’enigmatico Trio del terzo movimento); è la fine del bel mondo viennese, visto, agli occhi del compositore, come ormai lontano, perduto per lo sfortunato musicista, che di lì a poco avrebbe trovato la morte, a soli trentuno anni.

Molto bravi i cinque musicisti che hanno dato vita ad una performance assai sentita, ricca di tensione, equilibrata nei tempi ed eccellente nell’esecuzione, in particolare nell’intensissima interpretazione dell’Adagio.

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