Pesanti condanne anche in appello per le nuove leve della famiglia del boss storico Ferrante, inchiodati dalla retata scattata nel 2013 dopo le richieste estorsive a tappeto a commercianti e imprenditori della zona.
Reggono anche in secondo grado, con qualche aggiustamento, le condanne per le nuove leve del clan di Camaro coinvolte nell’operazione della Squadra Mobile battezzata Richiesta e sfociata nel blitz del 2013.
La Corte d’Appello di Messina oggi pomeriggio ha confermato le condanne emesse in primo grado poco meno di un anno fa, applicando sconti di pena un po’ a tutti gli imputati
Ecco la sentenza: 9 anni e 10 mesi per Francesco La Rosa; Antonino Genovese: 8 anni e 8 mesi; Francesco Di Biase: 8 anni e mezzo; Gianfranco La Rosa: 8 anni e 2 mesi; Sebastiano Freni: 6 anni, 10 mesi; Salvatore Triolo: 7 anni e 8 mesi; Raffaele Genovese: 6 anni e 4 mesi; Giovanni Lanza: 6 anni e 8 mesi; Vito Genovese: 1 anno e 4 mesi. Assolta Maria Genovese.
In primo grado erano stati assolti l'ex boss storico di Camaro, Santi Ferrante, e la moglie Emanuela La Rosa. L'ipotesi degli inquirenti era che il boss continuasse a gestire le estorsioni da dietro le sbarre del carcere. Pesanti le condanne, invece, per quelli che hanno portato avanti le richieste estorsive e gli altri affari, gestiti per lo più dai componenti di due nuclei familiari, operanti nel popoloso quartiere sulle colline del centro cittadino.
Confermati i risarcimenti per la vittima che ha denunciato e l'Associazione Antiracket Siciliana.
L'inchiesta era scattata nel 2011 quando il biglietto con un chiarissimo messaggio estorsivo è stato recapitato al titolare di un negozio camaroto. Dietro c'era Di Pietro, scoprì la Squadra Mobile, che lo arrestó nel 2012.
Agli investigatori apparve chiaro che la "famiglia" di centro città stava rialzando la testa. La risposta fu immediata: una quantità di cimici ben piazzate ovunque, persino sotto le panchine della principale piazzetta del quartiere, permisero di ricostruire il pizzo imposto a tappeto a negozi e cantieri della zona, svelando il nome e il cognome degli uomini che tiravano le fila delle estorsioni.
Quelle istallate nella sala colloqui dei carceri dove erano rinchiusi i boss, invece, rivelarono che questi continuavano ad avere l'ultima parola su tutto, facendo filtrare i messaggi all'esterno attraverso i familiari. Questo era appunto il compito specifico delle mogli, a volte coinvolte direttamente anche nei principali affari criminali.
La sentenza di oggi riconosce sostanzialmente il quadro delineato da quelle indagini, anche se le difese, che hanno impegnati gli avvocati Rita Pandolfino, Giuseppe Carrabba, Salvatore Stroscio, Salvatore Silvestro, Pietro Luccisano, Tancredi Traclò, Giuseppe Donato, con il dibattimento di primo e secondo grado hanno ottenuto una riduzione delle condanne previste per gli imputati.
Alessandra Serio