Meglio pagare tanto e avere tanto o pagare poco e avere poco?
Il tema delle tasse, nel modo rilanciato da Berlusconi qualche giorno fa, merita un certo approfondimento, quantomeno per dare sostanza all’iniziativa del Premier e alle timide (ahinoi!) critiche che gli sono venute addosso dal PD.
Il Cavaliere ha dichiarato che il suo Governo si propone di ridurre le attuali 5 aliquote fiscali a 2.
Attualmente l’aliquota fiscale media in Italia è del 41%; l’obiettivo dell’attuale Governo è tassare al 23% tutti i redditi al di sotto dei 100 mila € e del 33% quelli superiori, il che porterebbe l’aliquota media vicino al 30%, considerate le tasse locali e che i redditi superiori ai 100 mila euro sono meno dello 0,5%.
Il che è semplicemente ridicolo e attesta il livello d’evasione nel nostro amato stivale. Fenomeno ben noto ai Governi degli ultimi cinquant’anni e mai affrontato radicalmente.
Lasciamo perdere se il calo di entrate che ne deriverebbe è sostenibile o meno, così come non vogliamo sforzarci a capire se si è trattato di una boutade elettorale o di un sincero progetto a medio termine. Né vogliamo avallare la divisione manichea tra buoni (che sono contenti di pagare le tasse) e cattivi (che evadono).
Analizziamo invece serenamente qual’è la visione dello Stato che si nasconde dietro il sistema di tassazione delle persone fisiche proposto da Berlusconi e le conseguenze che deriverebbero dalla sua attuazione.
Non tratteremo affatto il regime fiscale dei redditi da capitale, che meritano altre riflessioni.
L’obiettivo berlusconiano si inquadra nella visione ultraliberista dello Stato minimo, cioè di uno Stato che si occupa di poche cose e lascia il resto ai privati, limitandosi a sorvegliare l’efficienza dei servizi pubblici loro affidati.
Naturalmente, uno Stato siffatto ha bisogno di pochi soldi per funzionare e quindi si può permettere di ridurre il carico fiscale dei cittadini.
Si interessa poco di pensioni, sanità e istruzione o, più precisamente, se ne occupa solo a favore dei cittadini che sono al di sotto della soglia di povertà (pensioni e sanità) o sono particolarmente capaci (istruzione).
Le prime vengono affidate ad assicurazioni private, che ogni cittadino si paga nella misura in cui può e vuole tutelarsi, la seconda si basa su borse di studio da attribuire ai più meritevoli.
E’ un po’ quello che accade in America – dove l’aliquota fiscale media è del 27,3% – e ora Obama tenta di cambiare.
Completamente diverso è lo Stato che si occupa del cittadino “dalla culla alla tomba”, come avviene nei Paesi scandinavi: alta tassazione e aliquote progressive che obbligano i cittadini – e i ricchi in particolare – a devolvere buona parte dei loro redditi a favore dello Stato.
Che poi redistribuisce il tutto sotto forma di servizi sanitari e pensionistici, istruzione e quant’altro assicurati a tutti.
Uguaglianza ma anche grande senso del dovere dei singoli nei confronti della collettività.
L’evasione fiscale è condannata moralmente prima ancora che penalmente, pur se l’aliquota media è superiore al 50%, con un massimo del 60%, come avviene in Danimarca e Svezia.
In rozza sintesi, i principi etici che ispirano le due visioni sono opposti: nel primo – tipo americano e liberista – il merito individuale prevale sugli obblighi nei confronti della collettività. Nel secondo (scandinavo e socialdemocratico), invece, l’individuo deve farsi carico dei bisogni di tutti.
Va detto che entrambi i sistemi funzionano abbastanza bene.
Il nostro zoppica.
Sembra essere affetto degli inconvenienti peggiori di entrambi: un’aliquota media troppo elevata per farlo assomigliare a uno Stato del primo tipo, ma con servizi pubblici (pensioni e istruzione soprattutto) decisamente insufficienti.
L’evasione è uno sport nazionale e sottrae enormi quantità di risorse, impedendo di fatto un sostanziale aiuto alle categorie più deboli; mentre il merito viene sistematicamente mortificato a favore delle categorie privilegiate.
Dopo questo sunto – certamente approssimativo e superficiale – consentiteci una riflessione.
A nostro modesto parere, l’Italia, in questo momento storico, ha più bisogno di ritrovare il significato etico della convivenza civile che di essere sottoposta a un’iniezione di liberismo che accentui l’istinto dell’affermazione individuale.
Quello che troviamo insopportabile nel nostro Paese non è che si persegua un modello fiscale anziché un altro, ma l’intima sensazione di ingiustizia che proviamo nel vedere premiata l’arroganza e punita l’onestà.
Troviamo immorale dare a un operaio, a un insegnante o a un pensionato meno di 20.000 € l’anno e 3 o 4 milioni e anche di più a un manager (e sono tanti), privato o pubblico che sia.
Sappiamo bene cosa obietteranno gli ultraliberisti: è il mercato a regolare i compensi e i le maggioranze parlamentari non devono legiferare in base alle opinabili convinzioni etiche dei loro leader.
Giusto, però, pur non essendo certo a favore dello Stato etico – quello cioè che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male -, vi è un limite a tutto e, se non si può impedire a un’azienda privata di pagare i suoi manager quanto vuole, lo strumento fiscale deve essere usato in senso perequativo: qual’è il limite oltre il quale un compenso annuo diventa “indecente”?
300 mila €?, 500 mila? 1.000.000 di €?
Ebbene, ci piacerebbe vedere tassato con aliquote altissime tutto ciò che eccede un tale somma, così da scoraggiare una distribuzione del denaro che (noi) consideriamo iniqua e amorale.