Daniela Cafeo: La mafia uccide, chi lo racconta vince. Nel cast tanta Messina

Daniela Cafeo: La mafia uccide, chi lo racconta vince. Nel cast tanta Messina

Daniela Cafeo: La mafia uccide, chi lo racconta vince. Nel cast tanta Messina

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venerdì 18 Maggio 2018 - 07:12

"Siamo tanti testimoni oculari di un pezzo di storia che nessuno deve dimenticare" scrive Daniela Cucè Cafeo in occasione della messa in onda, su Rai 1 de "La mafia uccide solo d'estate 2"

La mafia uccide solo d’estate, è vero, ma chi ha deciso di raccontarcelo ha colto nel segno per tutte le stagioni. È il 2013 ed il film viene distribuito nelle sale italiane, rivelandosi un successo cinematografico sorprendente.

E se per molti rimane una piacevolissima commedia drammatica (mai apparente ossimoro fu più felice), per i palermitani ha l’effetto di un autentico colpo al cuore.

Sono palermitana anch’io e ho più o meno l’età di Pif, e mentre scorre sullo schermo il fiume di fotogrammi di quei tormentati anni ‘70 e seguenti, io rivivo in un unico intenso brivido tutta la mia infanzia e l’adolescenza.

Luoghi, atmosfere, abitudini, oggetti d’uso quotidiano: c’è tutto un mondo raccontato con una cura del dettaglio che m’impressiona, e che recupera alla mia memoria ogni più piccolo particolare di un’esistenza che si snodava in un’apparente normalità mentre fuori si combatteva una guerra sanguinosa e senza fine, in cui i migliori restavano sempre bocconi sull’asfalto, o piegati sul volante delle loro auto, o esplosi in aria come tragici fuochi d’artificio, e i peggiori ingrassavano e proliferavano al ritmo dei loro loschi affari, assumendo le sembianze di un gigante che sembrava vano combattere, perché troppo più forte, troppo più grande.

Non so descrivere la profonda commozione di quella sera, nè dire con quanta partecipazione e intensità ho pianto e riso allo stesso tempo. Ma mentre guardo rapita la pellicola, ho un chiodo fisso in mente: devono vederlo i miei figli insieme a me, presto, prestissimo. Devono sapere, gli devo raccontare. Così ci sediamo in salone, davanti al piccolo schermo questa volta. E come era accaduto durante la prima visione, riconosco ogni omicidio prima che nel racconto avvenga, snocciolo nomi, fatti, date, episodi che inevitabilmente nella narrazione vengono omessi. Ricordo tutto.

E racconto di quando, bambina, vivevamo in Viale della Regione Siciliana, al numero 2282. Di quando la quiete familiare era scossa da un improvviso ululato di sirene: la prima, la seconda, la terza… poi non smettevano più. E portavano odore di morte. Non posso dimenticare il silenzio assoluto che piombava in casa, e gli sguardi di mio padre e mia madre che immediatamente si cercavano, chiedendo conferma l’uno nell’altro: “Hanno ammazzato qualcuno…” mormorava mio padre. E non si sbagliava mai.

E di quando al primo piano del mio palazzo affittarono un appartamento alla segreteria politica di un certo Salvo Lima. Fu impressionante, anni dopo, sapere chi era realmente quell’uomo, il ruolo che aveva svolto nelle file della mafia. Pensare che sotto quella “parrucca” di capelli tutti bianchi che lo faceva apparire come una candida pecorella, scorrevano pensieri di malaffare, di connivenze, di patti “d’onore”, mentre ignari di tutto, io e i miei amici giocavamo ridendo a palla prigioniera o scorrazzavamo felici sulle biciclette nuove nel grande spazio antistante la portineria.

Senza saperlo eravamo seduti su una polveriera, e fu solo un caso se non prese fuoco mai.

Trascorse l’infanzia e poi l’adolescenza, e dopo la maturità venni a vivere a Messina. Ero incinta della mia prima figlia il 23 maggio 1992, che era anche il giorno del secondo compleanno della mia nipotina.

Aspettando la sua festa guardavo tranquilla la tv, felice all’inverosimile di quell’esserino che mi cresceva in grembo, e mai avrei creduto che di lì a poco la voce grave del cronista avrebbe comunicato ad un’Italia attonita la notizia devastante dell’attentato a Giovanni Falcone. Mi sentii morire. Restai gelata sul divano, mentre insopprimibili sentimenti di dolore, di rabbia, di sconfitta, mi pervadevano a ondate. E paura. Ora eravamo veramente soli.

Quell’uomo che ogni mattina incrociavo andando a scuola a piedi, a cui cedevo il passo mentre le auto della scorta bloccavano il traffico coi mitra spianati, in una straordinarietà che per me era diventata l’ordinario, non ci avrebbe più difesi, nè salvati.

E poi arrivò il 19 luglio, e un altro durissimo colpo sferrato dalla piovra ci privò di Paolo Borsellino. Sembrava veramente la fine, e invece era l’inizio.

La prepotenza, l’efferatezza, l’arroganza di non fermarsi davanti a niente e a nessuno aveva colmato la misura. E prova ne furono i funerali di questi uomini, in cui la gente disperata, rabbiosa, sfinita, coi pugni serrati urlava a squarciagola contro lo Stato, colpevole di averci lasciato orfani non solo di se stesso, ma di quegli uomini coraggiosi in cui avevamo tanto creduto.

Sembrava non si avesse più nulla da perdere, ormai, e il velo dell’omertà si cominciò a squarciare sempre più, facendo infiltrare nel tessuto sociale piccoli accenni di legalità e di coraggio che sarebbero stati destinati a diventare vere e proprie sacche, sempre più numerose, sempre più ampie.

L’eco di quel film giustamente non si è spento, e in questi giorni torna per il secondo anno consecutivo sugli schermi tv grazie a una fortunata serie con la brillante regia di Luca Ribuoli che vede impegnati sul set attori anche messinesi, ciascuno con un ruolo diverso, ma tutti estremamente convincenti, scelti con grande abilità da Francesco Vedovati.

Da Nino Frassica/ Frà Giacinto, novello Don Abbondio che incarna perfettamente il vaso di coccio in mezzo ai tanti vasi di ferro, e che riscrive con “originalità”’ i dettami del Vangelo secondo le esigenze di Cosa Nostra, dispensando ai malcapitati fedeli consigli improbabili di una comicità assoluta. Nino è l’unico che non si sforza mai di recitare in un improbabile palermitano, perché è la messinesità fatta persona, e anche dopo un’intera vita di tv, il suo accento è sempre quello delle nostre periferie e lui non intende affatto tradirlo.

A Maurizio Marchetti, che dall’esilarante ruolo di Jean Pierre nel film per il cinema, migra istrionicamente in quello di Nino Salvo, la cui disonestà si nasconde bene dietro un’apparente e sarcastica ingenuità che pretenderebbe di farlo passare per un bonaccione. Al preside di scuola elementare Giampiero Cicciò, felice interprete dell’incarnazione della cultura che si fa schiava della rassegnazione, perdendo l’occasione di svolgere la più alta fra le proprie missioni, quella di educare alla legalità le giovani generazioni.

A Daniele Perrone nei panni di Totuccio Inzerillo, mandante dell’omicidio del giudice Gaetano Costa, morto poi per ordine dei corleonesi come pure il figlio e i fratelli, travolto dalla stessa scia di sangue che per tutta la vita aveva tracciato. Ad Antonio Alveario, nel ruolo del compianto giudice Rocco Chinnici, che oltre ad essere un uomo di grande levatura morale, tanto buono e gentile quanto coraggioso e determinato, per me era semplicemente il papà del mio compagno di scuola Giovanni, che saltò in aria lasciandolo orfano troppo presto insieme alle sorelle.

E infine… vi ricordate di quella bambina che portavo in grembo da poco più di un mese in quel tragico 23 maggio 1992?

Beh…lei è diventata Ilenia D’Avenia, oggi fa l’attrice e nessuno, men che meno la madre, avrebbe potuto immaginare che un giorno sarebbe stata su quel set, a impersonare l’esigente, tagliente e sarcastica professoressa di liceo che tutti abbiamo avuto e odiato, ma che ricorderemo sempre con affetto perché è quella che ci ha insegnato più degli altri.

E che è lì a darmi un ulteriore fremito, nel solco di un’emozione più grande tracciato dal racconto fedele di una vita che è stata anche la nostra.

Di tutti noi, testimoni oculari di un pezzo di storia che nessuno dovrà dimenticare.

Daniela Cucè Cafeo

“La mafia uccide solo d’estate” – la serie

Su Raiuno ogni giovedì alle 21, 25

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