Quando Reggio vendeva argento

Quando Reggio vendeva argento

Quando Reggio vendeva argento

giovedì 05 Novembre 2009 - 19:37

Storia dello Stretto: la miniera del Valanidi

Sulla mia scrivania ormai da tempo giaceva dimenticata una cartellina con su scritto -Argento nell’alta valle della fiumara Valanidi-.

Articoli presi qua e là, scritti da professori come Rubino o Sorgonà, spunti da lavori di geologi moderni famosi come Pileggi, Pipino oppure la descrizione geologica della Calabria del mitico ing. Cortese.

Gli indizi erano parecchi e tutti datati:

1) L’ing. Melograni che nel 1823 esplorando geologicamente l’Aspromonte diceva che “le cave erano aperte nei valloni del Valanidi come Allai… dal cunicolo della “Stroffa” usciva il materiale per la fonderia ed in quantità…”

2) L’articolo del prof. Orlando Sorgonà sulle fonderie di Arangea che riportava tanti estratti bibliografici tra cui il De Lorenzo (1760) che parlava di “…laverie della terra argentifera del Valanidi”.

3) La patena di argento dorato (nella seconda foto a corredo dell’articolo) conservata nello spettacolare Museo di San Paolo a Reggio, unico residuo dei prodotti delle officine di Arangea con un testo latino inciso che festeggia il matrimonio tra Carlo III e la regina Amalia nel 1750.

Insomma, Re Carlo III di Borbone aveva fatto arrivare dalla Sassonia tecnici e minatori (conterranei della Regina), esperti nell’estrarre e lavorare minerali preziosi. Aveva fatto costruire una grande fonderia dove “macinando e arrostendo” rocce e galene provenienti anche dalla vallata del Valanidi, si producevano ferro, rame, piombo e da quest’ultimo appunto l’argento.

Questa era la storia, ma adesso dove si trovano queste miniere?

Si sapeva che c’era qualche accenno di traforo o vecchi ruderi, ma cercavo la corrispondenza tra la realtà odierna del 2009 d.C. e quanto si scriveva due secoli fa. Specialmente sulla parte -argentifera-.

In mio aiuto, la mail di un amico cacciatore che segnalava grotte non meglio identificate in un costone della vallata aggiungendo qualche riferimento topografico.

Non essendo zona abitata escludevo che fosse un rifugio antiaereo perciò poteva essere proprio una bocca di miniera.

L’unico modo di verificare era andarci, attrezzati da trekking e sperando in una giornata meteorologicamente -clemente-.

Un sabato le condizioni si facevano favorevoli e con il prof. Sorgonà percorriamo con la macchina la strada che ci porta verso l’alta valle del Valanidi.

Ritrovo qualche riferimento della mail ma chiedendo in loco restringiamo il campo di indagine.

Scendiamo in un valloncello e dopo circa 100 metri ci ritroviamo di fronte ad un costone di roccia nerastra pieno di rovi. Al centro proprio la bocca di miniera.

L’emozione è forte poiché davanti a noi si materializzano, a distanza di 200 anni, i resti di quegli scavi cominciati da uomini venuti da lontano ovvero quei tedeschi di Sassonia ed in particolare di Frieberg, città tutt’oggi famosa al mondo come la “città dell’Argento”.

Chissà per quanti anni e chissà quanto materiale -prezioso- è uscito da quel cunicolo. Incredibile vedere intere pareti -scalpellate- a mano per rincorrere, nelle viscere della terra, la sinuosa “vena” argentifera.

Immaginare poi che dov’ero io, si muovevano freneticamente squadre di minatori che entravano ed uscivano, si davano i turni, caricavano forse carrelli o cassette e chi lo sa che altro facevano.

Decido di entrare per qualche metro procedendo carponi poi riesco ad alzarmi quasi completamente; la galleria non è molto lunga e probabilmente è ostruita; una presa d’aria fa entrare un raggio di sole e mi fa scorgere in basso un rudimentale canale scavato a mano che probabilmente faceva defluire l’acqua di infiltrazione da qualche altra parte a valle.

Scatto alcune foto (che potete osservare nella photogallery) e appoggio alle pareti lo stemma della Sassonia come per riportare in quei luoghi qualcosa dei suoi antichi frequentatori.

Lasciamo il posto senza toccare nulla in segno di rispetto per i luoghi e per le proprietà altrui.

E l’argento? Rimarrà lì perché, oggi, non è più economicamente -conveniente- estrarlo come si faceva al tempo; la quantità che si ottiene è poca in proporzione al lavorato e soprattutto il prezzo odierno della materia prima è notoriamente basso.

Già le indagini dell’epoca (nel 1800) davano per Valanidi ogni 100 kg di piombo lavorato dalla roccia circa 500 grammi di argento puro.

Invece per la galena di Rosalì (ma poi la vena fu “persa”…) ogni 100 kg di roccia si estraevano 68 kg di piombo e da 100 kg di piombo si tiravano 300 grammi di argento.

Nel 1750 doveva essere invece un metallo veramente prezioso se per esso, per il ferro e per il rame si arrivò a costruire ad Arangea (oggi via Miniera) una fonderia che contava oltre 700 dipendenti tra tedeschi ed italiani che vi edificarono pure la chiesa dove pregare (ricostruita poi nell’odierna San Giovanni Nepomuceno, il santo dei “tedeschi”).

Poi dopo una trentina d’anni l’abbandono, i terremoti, l’oblio….

Magari oggi si potrebbe creare un bel percorso di valorizzazione di quelle bocche di miniera.

Magari si potrebbe fare un gemellaggio con la città di Frieberg in Sassonia nelle cui biblioteche comunali si trova un pezzo di storia di Arangea e del Valanidi.

Sapremo così dov’è andato a finire l’argento… magari è sepolto sotto qualche bergamotteto!

Post Scriptum: ringrazio il prof. Orlando Sorgonà (da nominare al più presto Assessore alla Cultura!) e gli amici del Valanidi sia quelli che sono rimasti a vivere e a lottare con i denti per conservare il territorio sia quelli lontani che non hanno mai smesso di amare la loro spettacolare vallata.

Stefano Migliardi, Ingegnere appassionato di archeologia industriale

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