23 NOVEMBRE - Il giorno del risveglio dopo il fragore della montagne e il “tuono” del torrente

23 NOVEMBRE – Il giorno del risveglio dopo il fragore della montagne e il “tuono” del torrente

23 NOVEMBRE – Il giorno del risveglio dopo il fragore della montagne e il “tuono” del torrente

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giovedì 22 Dicembre 2011 - 23:54

A un mese dal disastroso nubifragio che ha colpito la provincia tirrenica, il pensiero corre alle famiglie delle tre vittime e ai tanti cittadini che nonostante la tragedia ringraziano ancor di poter sorridere alla vita. Di seguito il “ricordo speciale” di uno di loro: «Siamo vivi, possiamo dirlo tra le strade, abbiamo visto la vita in faccia»

Un mese fa come adesso, nella triste mattina del 23 novembre, la prima dopo la maledetta notte del nubifragio, si spalava nel fango, si cercava di recuperare il possibile, ma soprattutto ci si provava a dare delle risposte. Di quelle risposte che nessuno però è in grado di dare, perché non ne esistono. Non esiste morire a 10 anni, non esiste morire ad un passo dal traguardo della laura, non esiste morire ed abbandonare la propria moglie, i propri cari. Non esiste eppure è stato. A Scarcelli, frazione di Saponara, dove Luca, Giuseppe e Luigi sono stati risucchiati dalla terra, nessuno si dà pace: sarà un Natale diverso, anzi forse non sarà proprio Natale e non potrà esserlo mai più. Il paese è deserto, le strade vuote di persone ma ancora piene delle tracce di fango; le saracinesche delle botteghe alimentari dove di solito, in questi giorni, sarebbe stato necessario fare la fila per comprare gli ultimi ingredienti necessari per la cena della vigilia o per il pranzo del 25, sono serrate. Così come serrato è il cuore di tre famiglie spezzate dal dolore e quello di un’intera comunità.

E’ una tristezza diversa, “sporcata” dal fango ma non dal peso della morte, quella che si respira invece tra le strade di Barcellona Pozzo di Gotto, dove il torrente Longano ha fatto la “voce grossa”. Non è un tristezza luttuosa, bensì una tristezza malinconica, stimolata dall’immagine di un centro città ancora devastato e dove sarà necessario chissà ancora quanto tempo per tornare alla normalità. Eppure c’è chi, di quanto successo, ha una visione diversa e da questa che vuole ricominciare perché in fondo «dopo la catastrofe dell'esondazione del torrente Longano, siamo tutti vivi. Possiamo dirlo tra le strade: abbiamo visto la vita in faccia».

(FOTO STURIALE)

Di seguito vi proponiamo il pensiero “speciale” di Pietro Puleo, cittadino di Barcellona.

«Apro la finestra e ascolto il torrente. Ha messo in onda un rumore bianco, un fruscio continuo. È una notte stellata e piena di fango. Il giorno dopo si sente il ronzio delle ruspe. Non posso dormire. Scendo e spalo, spalo e scendo verso la terra, la terra dopo gli argini crollati. Crollano gli argini e crollano le barriere, le differenze d'età e sociali. Adesso è chiaro, non c'è spazio (e forse nemmeno tempo) per fare inutili distinzioni. Eppure, dopo la catastrofe dell'esondazione del torrente Longano, siamo tutti vivi. Possiamo dirlo, tra le strade: abbiamo visto la vita in faccia. Il Longano, il torrente che divide la città di Barcellona Pozzo di Gotto, è un paradosso del creato. Con questo suo scossone ha voluto unire i cittadini nell'aiuto reciproco. Ha ribadito con prepotenza la stretta di mano impressa sullo stemma civico. Ci ha pensato lui, il torrente, a dare una mano a una città garbatamente già morta da tempo. Doveva pensarci lui, con tutta la sua irruenza e bestialità, a ripristinare la verità. Benedetto torrente che ci ha salvati. Quanto durerà questa salvezza? Non lo so. So che non bisogna guardare in faccia nessuno, o meglio: guardare e rimboccarsi le maniche. So, e questo sapere è un apprendimento derivato da un istante, uno di quegli istanti che ci lasciamo sfuggire dopo ogni colazione. Poi a tarda notte torno a dormire, stanco. E sogno, sogno rapide zoomate sui cumuli di terra bagnata, sogno gli odori selvatici e non mi stupisco quando trovo, al risveglio, un granchio sotto il cuscino. Iniziano altre mattine e tocco coi guanti una sorprendente ciclicità, evito le disdette, accolgo l'abbraccio onnipresente dei muri e delle dune di terra. Deserto scostumato. Prendiamo tutti ripetizioni dal cataclisma, o da quello che a noi sembra cataclisma. Mi concentro sulla costanza del silenzio notturno, sul coprifuoco annunciato dalla coscienza turbata. La violenza si nutre di questo stile di raccoglimento, rinchiuso e agitato. Fuori c'è freddo, all'interno delle case i discorsi sono illuminati dai neon dei lampadari delle cucine e dalle candele accese. Si respira aria pulita, dal centro alla periferia, dalla rabbia allo stupore. Una famiglia di pantani circonda la città, la disturba, la rende pozzanghera matriarcale. La notizia è ustoria, ma pochi se ne appropriano. A distanza di giorni, incontro pedoni alienati: vagano al centro delle arterie cittadine, rischiano di farsi investire dalle automobili; le loro traiettorie sconnesse sono persino alienanti e conducono l'osservatore al deragliamento delle proprie logiche. Anche io deambulo trasognato in un paesaggio lunare, mi mancano solo la tuta spaziale e qualche dollaro di speranza in più. La débâcle, tuttavia, impedisce l'autocommiserazione. A volte mi viene ancora voglia di raccontare tutto quello che ho visto e che ho provato, ma non ci riesco e preferisco mantenere queste sensazioni come si mantiene un tesoro. Voglio proteggere un'integrità morale riemersa dalle ceneri degli egoismi. Sento di aver avuto non uno, ma tanti egoismi. Queste cose bisogna sperimentarle sulla propria pelle, mi dico. La poltiglia non finisce mai, mi dico. Resterà per sempre nei nostri cuori anche lei, la poltiglia, mi dico ancora. Ognuno pensa tra sé e sé, durante il lavoro di pulizia dei locali e delle vie, e si instaura un dialogo collettivo basato su un mutismo che stavolta appare proficuo. L'acquisizione di un vantaggio. La paura e la disperazione non sfiorano più questo popolo, queste località. Adesso c'è molta polvere, specie se non piove. Non esistono eroi o santi fotografi. Dobbiamo chiedere perdono alla natura, alla civiltà, alle tasche vuote. Tutto ci coinvolge; come farabutti siamo catapultati dentro un'esistenza viscida di fanghiglia, che ha cancellato le nostre discendenze e le nostre colpe. Siamo in gioco. Ma quale meraviglia sarà capace di riportarci coi piedi per terra?

PIETRO PULEO

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