Daniela Cucè Cafeo: Tutto il buono che c'è

Daniela Cucè Cafeo: Tutto il buono che c’è

Daniela Cucè Cafeo: Tutto il buono che c’è

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sabato 23 Giugno 2018 - 04:20

Una riflessione sul "buonismo" e sulle diverse conseguenze ed interpretazioni

C’è una parola d’uso comune pggi particolarmente ricorrente.
Una parola che da giorni mi fa riflettere, e che ogni volta che i miei occhi incontrano quando leggo, mi rimbalza sul cervello come una pallina da tennis scagliata contro la mia testa da un abile tennista a pochi metri da me.
Questa parola è “buonismo”.
Il suffisso “ismo”, per lo più utilizzato per definire ideologie, correnti artistiche, religioni e movimenti di pensiero di tutto rispetto, conosce però una connotazione fortemente negativa in tutti quei casi in cui si voglia utilizzare con accezione denigratoria, in un giudizio morale a metà fra il cinismo e il disprezzo.
Capita così che i buoni sentimenti, la solidarietà umana, la condivisione dei dolori altrui, passi al vaglio della fittissima rete di tutti quelli che non “soffrono” di alcuna spinta altruistica, nè di empatia col proprio simile, e che albergano in un supposto piano “superiore” di coscienza, dall’alto del quale vedono con lucidità assoluta e taglio critico chirurgico ogni possibile situazione umana, giudicandola ed etichettandola secondo il proprio metro.
A costoro non è sufficiente essere convinti del valore universale della propria interpretazione della morale collettiva, nè basta prendere una posizione personale netta di rifiuto nei confronti dell’essere umano in stato di bisogno.
Hanno altresì l’urgenza viscerale di additare chi, ubbidendo ad altri tesori che conserva nel proprio cuore e che chiama “valori”, non perde occasione per esprimere tali moti del proprio animo.
Mi sono chiesta perchè lo fanno.
E, senza avere alcuna pretesa di aver trovato la chiave giusta, mi sono data una possibile risposta.
Nel profondo del loro cuore, essi sanno che rispetto a chi si pone di fronte al dolore e alle sventure che possono occorrere su questa terra, l’umanità si distingue in due grandi categorie: i buoni e i cattivi.
Ma il punto è che loro non ci stanno ad essere cattivi.
Sono i buoni che sono fuori luogo, stupidi, ipocriti e falsi, e parlano a vanvera senza neanche sapere di che parlano, blaterano astrattamente, facendo bella mostra di sentimenti che, per il fatto stesso che loro non li provano, non possono essere autentici, ma utilizzati a bella posta per il solo scopo, probabilmente, di apparire.
Ora, dal basso di una posizione arroccatissima dalla quale non intendo recedere, semmai avanzare, fatta di sentimenti limpidi, di amore incondizionato per il prossimo, di solidarietà umana, di un cuore talmente grande la cui vastità è impossibile misurare, sento di dover chiarire che amare e sostenere chi ha un pigmento diverso della pelle, chi professa un’altra religione, chi ha un orientamento sessuale diverso dal proprio, è assolutamente possibile e spontaneo senza che si sia nè stupidì, nè ipocriti.
Che sentire il desiderio di porgere un aiuto è per alcune persone assolutamente normale, anzi è proprio un’esigenza urgente, tutte le volte che se ne presenti l’occasione.
Queste persone non hanno un orticello proprio da conservare e difendere dagli “attacchi esterni”, perché sanno che ad esse nulla, su questa terra, appartiene veramente.
E magari pensano, come pensavo io da piccola, che San Martino è stato un santo, ma un santo un po’ a metà, perché il mantello io l’avrei dato tutto, non l’avrei diviso con la spada per tenerne un pezzo per me.
E ora che quella bambina è cresciuta, e sa che comunque sbagliava perché è giusto tenere un lembo del mantello per sè amando il prossimo come se stessi e non un briciolo di più, non ci sta ad avvertire quella cappa di disprezzo sul cuore.
E crede che al mondo, per quanti sforzi in molti facciano per saltare fuori dalla schiera dei buoni senza per questo piombare fra i cattivi, le grandi categorie rimangono comunque queste due, con i dovuti limiti e le possibili sfumature.
Che chi fa lo sforzo di gridare amore, lo fa sempre perché lo sente.
E chi grida indifferenza e odio, lo fa perché quello è ciò che prova.
E se oggi avessi in mano ancora quel gessetto con cui la maestra mi affidava l’ingrato compito di giudicare i miei compagni, tracciando una riga netta fra i buoni e i cattivi, e assegnandomi una responsabilità grande che non avrei voluto e che tanto mi pesava, io scriverei i nomi di tutti questi “ipocriti” che parlano d’amore dalla parte dei buoni, e dalla parte dei cattivi non ne scriverei nessuno, benché lo potrei fare.
Perché non voglio essere io a giudicare, ma proprio per questo non voglio essere a mia volta giudicata.
Tenendo comunque sempre ben presente quel detto della tradizione siciliana per il quale ognuno è ciò che dice, ciò che urla, ciò che fa e ciò che scrive:
“U PUTIARU… CHIDDU CHI AVI BANNÌA”.
E io bannìu tutto il buono che c’è.

Daniela Cucè Cafeo

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