Nelle organizzazioni complesse che operano nel mondo della “polis” si va affermando sempre più una filosofia di azione che assegna un ruolo marginale alle strutture intermedie, ossia quei “diaframmi” che si frappongono tra il potere e i destinatari delle decisioni assunte da chi esercita tale potere. La gestione del potere da parte dei leaders eletti democraticamente, infatti, nelle istituzioni pubbliche così come nei partiti e nei movimenti, tende ad esaltare il “capo” e la sua capacità di parlare direttamente con gli elettori, quel popolo che si riconosce in primo luogo nella sua persona e dopo nel suo messaggio.
Un potere accentratore, quindi, verticale, in grado di ridurre la filiera di comando, esercitato spesso in solitudine o al massimo condiviso all’interno di una cerchia di amici ristretta, “il cerchio magico”; un potere che non riconosce la funzione e l’utilità di alcuna struttura intermedia. Strutture che, per la verità, spesso hanno fatto a gara per delegittimarsi agli occhi del popolo e dei leaders ma che pur sempre rappresentano i luoghi della partecipazione, della condivisione o della mediazione del conflitto.
Tutto ciò è successo in Francia con Emanuele Macron che nei primi mesi del mandato ha impostato il suo progetto politico nel totale superamento dei corpi intermedi; una politica che ha ricevuto inizialmente il consenso della società francese affascinata dal nuovo modo di condurre gli affari di uno Stato accentratore. Ma così è successo anche in Italia dove prima con Berlusconi e poi con Renzi, oggi con Luigi Di Maio e Matteo Salvini, si è affermata una leadership che non ammette interferenze nel dialogo tra il leader e il popolo e che ha finito per relegare il Parlamento a un ruolo di comparsa. Una tendenza che si è affermata anche in ambito locale con il sindaco De Luca che al dialogo con le imprese del terzo settore che operano nei servizi sociali -per migliorare gli standard di qualità e ridurre le sacche di inefficienza-, ha preferito l’interlocuzione diretta con i lavoratori delle cooperative riportando in house la gestione dei servizi.
Una democrazia diretta, tuttavia, che lascia il leader esposto agli umori della piazza; a sentimenti, passioni ed emozioni, per loro natura, altamente instabili. Fino a quando esisterà empatia tra il popolo e il “capo” e ci sarà coerenza tra le cose dette e promesse e le decisioni assunte, allora andrà tutto bene; il rapporto funzionerà. E’ fin troppo facile, tuttavia, prevedere che il meccanismo si possa inceppare; il feeling può improvvisamente cambiare se, per esempio, alle cose dette e promesse subentrerà immancabilmente il “non realizzato” o il “quasi realizzato” e si imporranno le mediazioni inevitabili della politica che generano delusione, protesa e malcontento. E senza un parlamento autorevole, senza sindacati, senza partiti, senza terzo settore, senza strutture intermedie tra il potere e l’elettorato, agli umori variabili della gente non rimarrà che un solo bersaglio, il capo. Macron docet.
Michele Limosani