Sulla rotta della decima musa: la co-sceneggiatrice dell'opera, Tosi Siragusa, spiega le ragioni del film di Salvatore Arimatea, nuovamente in sala dopo la breve apparizione del 2015
Scrivere sul lungometraggio Ballando il silenzio (il cui trailer è stato più volte proposto nel corso di pubblici eventi, da ultimo presso Biblioteca Regionale Universitaria di Messina), e che ha anche avuto una proiezione ad inviti nel settembre 2015, è per me – in qualità di co-sceneggiatrice del film, unitamente al regista Salvatore Arimatea – particolarmente impegnativo.
L’intitolazione dell’opera cinematografica trae ispirazione dalla sua parziale ambientazione nel mondo del tango, scenario affascinante e straniante, ove si muove una delle protagoniste. In questo contesto mi soffermerò sul soggetto e sulla sceneggiatura del film, che ha avuto un laborioso montaggio, per approdare finalmente ad una prima forma di distribuzione. Molto si è scritto a partire da fine maggio 2013 sul lungometraggio, sia su quotidiani e periodici nazionali, regionali e locali, che su testate on-line, e tanto si è anche riportato nel corso di programmazioni televisive locali. Ritengo però utile ancora una volta un approfondimento sul senso più pregnante dello script, sui caratteri delle protagoniste e degli altri personaggi, per una comprensibilità il più possibile completa del film, premettendo che se gli attori, unitamente al regista, sono gli eroi visibili, il prodotto cinematografico è sempre la risultante dell’apporto di un team, che ovviamente ricomprende ogni figura facente parte dello staff, a qualsiasi titolo imprescindibile. Prima di scrivere sulla storia mi sembra opportuno reiterare qualche cenno sulla genesi del progetto in parola e sulla idea ispiratrice. Nel corso dell’estate 2012 appuravo, durante una conversazione con Salvatore Arimatea, incidentalmente, che i personaggi femminili, delineati rispettivamente in alcuni miei racconti inediti ed in un soggetto inedito per il cinema a firma Arimatea, presentavano caratteristiche di similarità per i tratti connotanti le protagoniste, descritte quali monadi, ognuna racchiusa entro il proprio universo di inquietanti rituali, donne in uno vittime e carnefici. Riflettendo sulle due figure femminili, Melissa ed Elisabetta – entrambe portate sul grande schermo da Marina Suma, con un complesso apporto anche per i costumi, l’hairstyling e il make-up – appare chiaro che le stesse sono rappresentate in controtendenza rispetto alle protagoniste di storie di vita dagli esiti infausti, che, ai giorni nostri, sempre più di frequente mettono il sigillo su storie amorose tossiche, dando luogo a quello che si è definito con terminologia poco felice “femminicidio” (sembra preferibile, piuttosto, l’uso del termine “ginecidio”, cfr Guido Ceronetti su Repubblica.it). Questa sceneggiatura presenta, invece, soluzioni, reali o immaginifiche, di segno opposto per venire fuori da rapporti amorosi controversi, soluzioni che immettono le due donne su strade senza via d’uscita: a meno di seguire, come avviene nella nostra storia, percorsi di reintegrazione non propriamente ortodossi. Le protagoniste esprimono però in realtà un disagio psichico generalizzato, promanante dalle pastoie entro cui la società odierna costringe, con il cosiddetto “tempo reale”, che tutto brucia in un istante, con i suoi meccanismi di potere fortemente contrassegnati nei vari ambiti, da quello familiare (ove non è delineato certo un quadretto da “Mulino bianco”) a quello lavorativo, impedendoci di divenire ciò che siamo e soffocando la vera personalità. Il malessere esistenziale è, dunque, la tematica principale; è altresì trattato in modo accattivante, il tema “del doppio”, presente in opere cinematografiche di grande impatto, quale La doppia vita di Veronica del regista polacco Kieslowski. In forma marginale la sceneggiatura, laddove racconta della forte empatia di una delle protagoniste con Genziana, tratteggia anche la problematica degli individui “diversamente abili”, spesso dotati di speciali sensibilità. La storia sceneggiata include anche un amore saffico, delicatamente rappresentato. Per seguire veramente da vicino la trasposizione cinematografica ho affiancato il regista sul set quale assistente alla regia. Le riprese hanno utilizzato speciali locations della città di Messina e della provincia, ed in particolare per l’ambientazione si sono sfruttati i luoghi magici di Milazzo, Montagnareale e Terme Vigliatore, laddove i sindaci delle due amministrazioni comunali da ultimo citate, hanno condiviso, apportando anche sostegno economico, il progetto, che reca altresì il patrocinio dell’Ars e di sponsor privati. Sui mezzi d’informazione sono stati fin qui riportati i ruoli degli attori, tutti in parte, delle comparse d’eccezione (come i tre sindaci di Messina, Montagnareale e Terme Vigliatore) e dei tangueri, facenti parte del cast e gli apporti dei componenti lo staff e non si ritiene sia utile in questa sede aggiungere altre informazioni.
Un plauso particolare al direttore della fotografia Daniele Franchina, che personalmente non mi ha convinto appieno quale responsabile del montaggio (troppi gli stacchi senza didascalie) e agli autori delle musiche, che sottolineano i passi di tango fondamentali, originali come quelle di Marco Werba (forse però la parte musicale è troppo preponderante). In conclusione, il film (nelle sale pattesi, con orario alle 17, e in contemporanea in proiezione presso il multisala Apollo, agli orari 16.30 e 20.30) come argomentato, tratta d’amore, di morte e di altro ancora, rappresentando un viaggio interiore attraverso il multiverso femminile, nell’ammaliante mondo del tango. E quel tempo circolare e il concatenarsi di destini rappresentati, mi piace pensare, avrebbero reso gradita la sceneggiatura al grande Borges. Per quanto mi riguarda ho avuto molta difficoltà a staccarmi di dosso i due personaggi femminili, così perturbanti nelle loro emotività turbate, da poter essere definite quasi muse ostili e involontarie, che hanno in certo senso preteso di essere portate in vita. Del resto, l’esercizio della scrittura è tutt’altro che astratto e per chiudere con la vita di finzione riprodotta letterariamente e liberarsene si deve porre in essere un grande sforzo, divenendo la stessa importante quasi quale quella reale: in particolare ciò è accaduto poiché Melissa ed Elisabetta, con le loro vite fortemente contrassegnate, presentano degli estratti conto esistenziali sempre in rosso da divenire invasive anche per gli spettatori. Se ne raccomanda la visione.
Tosi Siragusa