“Fuocoammare”, il trionfo berlinese di Gianfranco Rosi

“Fuocoammare”, il trionfo berlinese di Gianfranco Rosi

Tosi Siragusa

“Fuocoammare”, il trionfo berlinese di Gianfranco Rosi

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martedì 23 Febbraio 2016 - 14:03

Sulla rotta della decima musa: perché l'oblio non ricopra sotto la sua spessa coltre gli invisibili che sbarcano a Lampedusa, un documentario lirico firmato dal regista di “Sacro Gra”. Impressioni a cura di Tosi Siragusa

Dopo Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini, Vittorio De Sica, Gianluigi Polidoro e i fratelli Taviani, Rosi è il sesto regista italiano premiato a Berlino. “Fire at Sea wins…”, con queste incredibili parole pronunciate alla 66esima edizione del Berlin Film Festival Awards, il film documentaristico di Gianfranco Rosi, peraltro unico italiano in concorso, si è aggiudicato, quale miglior film, l'Orso d'oro consegnatogli da una commossa Meryl Streep, per la prima volta a capo della giuria. E così per 108 minuti, che sequenza dopo sequenza diventano sempre più densi nella loro crudissima realità, siamo immersi fra quell'umanità ferita a morte nell'anima (quando non giunga già cadavere).

La scelta al “Berlinale Palast” non appare casuale e il festival – svoltosi dall' 11 al 21 febbraio – sempre più internazionale, ha esibito un “tappeto rosso con moderazione” secondo le intenzioni del direttore Dieter Kosslik, per non essere immemori del contesto presente: in quella Berlino che ha accolto tanti rifugiati il glamour non avrebbe dovuto (giustamente) opacizzare la nuova identità della città ormai “aperta”, pur se con mille contraddizioni. E i film, in concorso e non, sono stati quasi tutti ispirati alle guerre odierne o alle rivoluzioni, a cominciare da “Letters from War”, di Ferreira, sulla guerra coloniale in Angola, fino a “A Lullaby to the Sorrowful Mistery”, interminabile lungometraggio sulla rivoluzione filippina, o alle diverse barricate, come “Where to invade next” di Michael Moore, su possibili modelli europei di civiltà da importare negli Usa, o “Chi-Raq” di Spike Lee, libera interpretazione di Lisistrata in chiave afroamericana; le registe nella competizione principale sono state solo due e poco spazio, poi, si è dato a storie amorose, come in “Maggie's Plan” con Julianne Moore e Greta Gerwig. La scelta del palmares è andata, quale Gran Premio della Giuria, a “Mort a Sarajevo” di Danis Tanovic, il film mastodontico filippino ha ricevuto l'Alfred Bauer Prize per le nuove prospettive e l'Orso d'argento per la regia è stato conferito a “L'avenir”, della francese Mia Hansen Love. Trine Dyrholm ha vinto quale protagonista di “Kollektivet”, di Thomas Vinterberg, mentre l'Orso d'Argento all'attore è andato a Majd Mastoura, protagonista di “Inhebbek Hedi”, che ha anche vinto il premio Miglior opera prima, per la regia di Mohammed Beu Attia. L'Orso d'argento per la sceneggiatura è andato a Tomasz Wasilewski per “Zjeduoczone Stany Milosci”, e quello per il contributo artistico al direttore della fotografia Mark Lee Ping-Bing per il film “Chang Jiang Tu” di Yang Chao.

Tornando a “Fuocoammare”, l'intitolazione, si è appreso, esser riferita ad un brano siciliano dal titolo omologo, che la nonna della famiglia – in certo senso protagonista in quella specie di storia di finzione, che è microcosmo e quotidianità – (splendidi i suoi totani al sugo, alla preparazione dei quali assistiamo come ad un rito, come quello del rifacimento -perfetto – del letto e delle sue preghiere mattutine) ascolta alla radio, e il riferimento nel suo racconto al periodo bellico e a quei fuochi “ammare” non è casuale: di guerra infatti, anche ora, si tratta. Samuele è adolescente dall'occhio pigro – chiara metafora a simboleggiare la necessità di aprire lo sguardo da parte dell'Europa e renderlo scevro di pregiudizi, tatticismi e tornaconti – e fatica a respirare, passa parte delle sue giornate a studiare un inglese (improbabile) a tirar di fronda fra le piante grasse a caccia di uccelli, e ama la terraferma (pur sapendo che dovrà dedicarsi alla pratica del mare). Ancora, è intensa la figura di uno dei medici del centro locale (il dottor Bartolo) che mantiene intatta la sua umanità e partecipazione, pur se deve intrattenersi in routinarie pratiche disumane come l'ispezione sui cadaveri. Indimenticabili poi – fuori da ogni possibile retorica – le gocce di lagrime rossastre che sgorgano da occhi indefiniti, come anche la litania che descrive la fuga dalla terra natia e l'odissea spaventosa, prima della salvezza (che offre una qualche possibilità) e che ci fa “sentire” le motivazioni che muovono i migranti a lasciare il loro mondo e affrontare quell'inferno… perchè “la vita è rischio ed è rischioso non rischiare”; e, ancora, gli angeli soccorritori nelle loro tute bianche e quelle povere figure avvolte in pellicole, che potrebbero prender fuoco, tanto sono intrise di nafta. Il regista di “Sacro Gra”, già Leone d'oro a Venezia, qui è assai più convincente e si è occupato altresì della sceneggiatura di ​quest'opera, che mostra una Lampedusa, fra vita sospesa, tragedia e emergenza continua, che non è certo da cartolina. Il filmaker ha l'indubbio merito di aver, con sguardo onesto, acceso il focus in una passerella cinematografica internazionale, che parla ad una platea internazionale, su Lampedusa e la sua gente, che da trenta anni apre le proprie dimore e il cuore a chi riesce a sopravvivere al viaggio della speranza. Per il resto, il cineasta, sempre impegnato nel sociale, alla ricerca della verità, premiatissimo e con il plauso di critica e pubblico, sicuramente ha avuto ed ha l'intento di scavare nelle coscienze dormienti e generare qualche tarlo anche tra gli abitanti di quei Paesi che erigono barricate e sono restii ad aprirsi all'accoglienza e alla convivenza con profughi e migranti.

In proiezione al Multisala Apollo, merita un 10 per la scelta del soggetto e il modo in cui è affrontata la tematica, un buono per la qualità filmica complessiva. Bravi gli interpreti di se stessi, quali, Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe Fragapane. Le immagini sono accurate e la loro preparazione, è evidente, è rifuggita dal mordi e fuggi di quelle inchieste che mirano ad acquisire materiale “tout court”: Rosi è rimasto sull'isola a lungo, e si avverte, ed è ammirevole per la sua misura e l'assente ideologia pur nel mostrare situazioni al limite e immagini scioccanti, per nulla intrise di estetizzante compiacimento, ma di compassione se mai. Si condivide la motivazione di un critico di Repubblica in ordine alla “vittoria tecnologica” del regista, con i suoi documentari di esplorazione, non dei fatti, ma del substrato poetico: e il film, coraggioso e struggente, appartiene a un uomo solo… Rosi.

Tosi Siragusa

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