Dopo una vita di menzogne, Jean-Claude Romand uccide tutta la sua famiglia. In "L'Avversario", Emmanuel Carrère ne ripercorre la storia.
Un parto difficile, doloroso anche, quello di Emmanuel Carrère con il suo “L’Avversario”. La maiuscola è d’obbligo: Carrère parla dell’angelo caduto, di Satana, qui personificato da un personaggio alquanto singolare. Si badi bene, non è un romanzo fantastico, o, meglio, un libro frutto della fantasia di uno scrittore esuberante e originale. “L’Avversario”, pubblicato originariamente nel 2000, tratta di Jean-Claude Romand, uomo realmente vissuto e ancora in vita. La sua potrebbe essere considerata una vita consueta, ordinaria: laurea in medicina, impiego all’OMS, moglie affettuosa e due figli. Finché, di punto in bianco, il 9 gennaio 1993 uccide la moglie, i figli e i propri genitori.
Le primissime indagini fanno emergere un dato sconcertante: Romand non ha mai lavorato all’OMS, né possiede una laurea in medicina. Piano piano si scopre la verità, e cioè che niente di tutto quello che ha mai detto è vero, e che è riuscito a vivere attraverso prestiti di parenti e amici sicuri di stare investendo il loro denaro in qualche banca svizzera, convinti dalla buona reputazione di Jean-Claude. Anche quel cancro che Jean-Claude diceva di avere era solo un’invenzione, una finzione.
Una vita costruita sulla menzogna, una famiglia tenuta insieme dall’inganno e dall’impostura di un uomo che, arrivato allo stremo psicologico e oramai pieno di debiti, non ha retto e ha ucciso tutti, tentando infine di suicidarsi, ma senza successo. Emmanuel Carrère è rimasto incuriosito dalla vicenda, è andato a incontrare il mentitore, ha avuto un regolare scambio epistolare con lui, che nel frattempo è stato condannato alla pena dell’ergastolo (dopo 26 anni di carcere, nel giugno del 2019 gli è stata concessa la libertà condizionale; oggi vive in una abbazia dove coltiva l’orto e partecipa alle messe). Che cosa succedeva nella sua mente quando diceva di andare al lavoro e invece stava ore e ore fermo in un parcheggio in periferia, oppure si perdeva nei boschi per poi tornare a casa dalla moglie e raccontarle della pesante giornata lavorativa?
La prosa fluida di Carrère trasporta in un universo fatto di raggiri e truffe, fra l’ansia di essere scoperto e, in parte, il desiderio di essere smascherato e porre fine al tormento di una vita fittizia. Carrère ha meditato a lungo prima di scrivere il testo: cosa avrebbe dovuto raccontare, d’altronde? Il rischio era quello di glorificare un mitomane, un criminale della peggior specie. Arrovellandosi sull’impresa che aveva ormai intrapreso, Carrère scrive: «Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera». Un crimine, per l’eventualità di una infausta celebrazione di un personaggio ambiguo e negativo; una preghiera, per la volontà di far venire a galla, nella coscienza di Jean-Claude Romand, la presenza dell’Avversario che l’aveva irretito, e attraverso il ripercorrimento della sua storia giungere, infine, al momento in cui Satana aveva preso dimora in lui, offrendo all’assassino la possibilità di riconoscerlo e prendervi le distanze.
Forse tutto è iniziato quando era bambino e in famiglia mostrava sempre il sorriso nonostante una acuta sofferenza interiore. I suoi genitori non erano mai stati recettivi riguardo a eventuali disagi psicologici, e Jean-Claude si sforzava di apparire tranquillo e perfino felice. «Non avevo nient’altro da nascondere allora, ma nascondevo questo: la mia angoscia, la mia tristezza», scrive Carrère immedesimandosi nel personaggio. Ma l’atto decisivo che ha condotto Jean-Claude al punto di non ritorno è stato l’aver mentito riguardo l’ammissione al terzo anno di medicina. Carrère lo descrive così: «Il fatto più sconcertante è che la follia sia stata commessa in due tempi, come uno che mentre lavora al computer schiacci il tasto sbagliato, rischiando di perdere un file prezioso, e quando il programma chiede: “Sei sicuro di voler eliminare il documento?”, dopo aver soppesato i pro e i contro, dia ugualmente l’ok. Se si vergognava troppo a confessare una bugia tanto puerile ai suoi genitori, poteva sempre raccontare di essere stato bocciato. Se un fallimento gli pareva inconfessabile quanto la fuga, poteva sempre andare dal professore o dal preside di facoltà, spiegargli del polso rotto, della crisi depressiva, e accordarsi per un recupero. Da un punto di vista razionale, qualunque cosa sarebbe stata preferibile a quella che ha fatto lui: aspettare il giorno dei risultati e poi annunciare che era stato promosso, dunque ammesso al terzo anno di Medicina».
Nel testo, Carrère decide di vedere in lui «non un uomo che ha fatto qualcosa di agghiacciante, ma un uomo al quale è accaduto qualcosa di agghiacciante, vittima sventurata di forze demoniache», scrive. Una prospettiva insolita che in un certo senso sospende il giudizio sulla persona pur riconoscendo il Male (con la maiuscola).