La prima rappresentazione del più famoso dramma di Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, avvenuta a Roma nel 1921, sorprese così tanto gli spettatori che molti credettero di trovarsi letteralmente dentro un manicomio. L’autore dovette in seguito aggiungere una prefazione per chiarire genesi, intenti e tematiche dell’opera.
Lo spettatore di oggi, abituato alle meta-narrazioni non solo dal teatro ma anche dal cinema e dalla televisione, non necessita di tale prefazione, ma ciò non toglie che Sei, adattamento del dramma pirandelliano ad opera di Spiro Scimone, andato in scena ieri al Teatro Vittorio Emanuele e in programma anche oggi, con spettacolo pomeridiano e serale, porti a riflettere a lungo su tutti i significati di ciò che avviene sul palco.
Si intuisce subito che ogni singola parola pronunciata dai protagonisti può aprire un intero universo di riflessioni. Troviamo una compagnia teatrale – quattro attori e il regista – alla vigilia di un debutto. Dare ritmo non significa correrespiega il regista, suggerendoci la prima delle riflessioni di cui sopra.
Un black-out è l’espediente che permette l’entrata in scena dei famosi sei personaggi (il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il giovinetto e la bambina). Superato lo stupore degli attori, i sei personaggi si presentano, raccontando la storia che li unisce. È una storia di forte impatto, scandalosa – meglio, incestuosa – diretta sì al pubblico, ma ancor più agli attori, che la ascoltano con sempre più attenzione.
Cambia la scena, e ora gli attori devono rappresentare ciò che hanno appena ascoltato. Non va bene, un po’ perché gli attori sono poco sciolti, un po’ perché quello composto dai sei personaggi è il pubblico più critico che ci sia. Ciò porta a un conflitto di difficile risoluzione: per i personaggi, gli attori non sono in grado di rappresentare l’intera realtà, ma solo quella parte di cui riescono ad appropriarsi; di contro, spiega il regista, sono gli stessi personaggi a non poter percepire la realtà, troppo coinvolti dalla propria esperienza.
Si cambia, ed è il turno dei personaggi di mettere in scena parte del loro racconto iniziale. Nemmeno ora tutto fila liscio, i personaggi non riescono a convincere fino in fondo il regista e gli attori. Inoltre, per loro, c’è un caro prezzo da pagare, ed è la madre a spiegarlo: i personaggi non rappresentano uno strazio che è già avvenuto, per loro lo strazio avviene al presente, rappresentazione dopo rappresentazione.
Viene da chiedersi: per l’attore non dovrebbe essere lo stesso? Altra domanda: il confronto tra attori e personaggi gioverà agli uni e agli altri? Terza domanda: è davvero possibile confrontarsi, comunicare? Oppure ognuno di loro – e di noi – è destinato a restare bloccato dai legami che impone il proprio ruolo e il proprio vissuto?
Queste, in ogni caso, non esauriscono le domande suggerite da Sei. Per la riuscita del meta-romanzo, sosteneva Julio Cortázar, è indispensabile la partecipazione attiva del lettore. Lo stesso può dirsi per il meta-teatro, e sia lo stesso Scimone, che il regista Francesco Sframeli, nelle note di regia, avevano dichiarato indispensabile la presenza – nel suo significato forte – dello spettatore. Sei è uno spettacolo che non spiega e non si spiega, ma che lascerà sicuramente nel già citato spettatore la voglia di capire un po’ di più di se stesso e degli altri.