A tre anni dall'alluvione che ha colpito la riviera ionica, Tempostretto ripropone, in tre parti, le principali tappe del millenario rapporto tra la città ed i suoi torrenti
Nell’interpretazione del possibilismo geografico, corrente di pensiero affermatasi tra i secoli XIX e XX, l’uomo non è rigidamente vincolato dall’ambiente fisico, ma a sua volta è un fattore geografico in grado di modellare e modificare il territorio. L’ambiente, dunque, non possiede più un valore assoluto, ma relativo al grado di civiltà e alla capacità d’intervento e di organizzazione politica ed economica della società umana (1).
Il caso di Messina è probabilmente una ideale esemplificazione di tale concetto, potendo l’iconografia storica della città testimoniare come le peculiarità geomorfologiche del luogo siano state sagomate – nei secoli – sulle esigenze di una comunità votata agli scambi e proiettata sul mare. In particolare, sarà interessante leggere e comprendere come l’insediamento si sia sempre strutturato all’interno di porzioni di territorio che potessero avere una precisa caratterizzazione e un elevato grado di difendibilità.
Non a caso, il primo sito popolato dai Sicani si sviluppa a ridosso del sistema collinare dei Peloritani, secondo un’ubicazione suggerita da scopi difensivi e dal reperimento di mezzi di sussistenza legati alla caccia e al raccolto. Proprio le colline, che interrompono talvolta bruscamente la loro pendenza, digradano verso la costa dando vita a una breve fascia pianeggiante di natura alluvionale, creata in gran parte da depositi trascinati dai torrenti che con ritmo serrato raggiungono lo Stretto.
A tal proposito, dalla “Guida di Messina e dintorni” stampata nel 1902 a cura del Municipio, apprendiamo che: “I corsi d’acqua del Comune di Messina, detti volgarmente fiumare, sono numerosi e quasi tutti a regime torrenziale. Il loro corso è brevissimo a causa della poca distanza del mare dalle colline da cui hanno origine, ed il loro letto, privo di qualsiasi vegetazione, è sabbioso e ghiaioso. Durante le piene invernali detti torrenti trascinano al mare abbondanti detriti che di poco accrescono la spiaggia a causa della incessante azioni delle correnti”.
Con l’arrivo dei Siculi (XIII sec. a.C.) fu avviato un processo di avanzamento dell’abitato verso la zona costiera, destinato a concludersi soltanto in età ellenistica (VIII sec. a.C.). L’insediamento andrà in seguito ad organizzarsi all’interno del grande approdo naturale, assumendo il primigenio nome di Zancle (“falce”)(2).
L’origine della penisola falciforme che racchiude il porto peloritano, per altro, è messa in relazione alla presenza di cordoni litorali di sabbia i quali, formatisi variamente per azione delle correnti marine ed alimentati dai detriti torrentizi, hanno avuto la possibilità di circoscrivere una determinata superficie del mare.
Il suddetto sito viene definitivamente colonizzato tra il 770 e il 757 a.C. come uno dei primi nuclei della Magna Grecia, dando vera forma di città agli agglomerati sparsi. Secondo Tucidide i primi abitanti provenivano dalla colonia calcidese di Cuma e dalla stessa madrepatria Calcide, situata nell’isola greca di Eubea.
Sorprendentemente Zancle corrisponde all’ideale di città tracciato da Ippocrate: esposta ad Oriente, areata dai venti, cinta da monti boscosi, bagnata da acque dolci e salmastre, esposta alle correnti marine ma da queste protette dall’insenatura di un ampio e profondo porto naturale. Lo stesso Tucidide lo definisce il luogo più felice della Sicilia per la posizione strategica e l’evidente potenziale economico legato ai commerci.
L’espansione della polis si attesta, così, in un’area di forma semicircolare il cui diametro costituisce un fronte di circa un chilometro tra gli alvei dei torrenti Boccetta e Portalegni (che allora sboccava all’interno dello specchio portuale). A partire da questo momento, topico per la nostra narrazione, i corsi d’acqua vengono utilizzati come elementi di partizione e definizione del territorio, ovvero saranno il limite strutturato e caratteristico della presenza umana.
Tale particolare organizzazione del territorio viene accentuata dal fatto che la città, non avendo un ampio retroterra perché chiusa dai Peloritani e da questi protetta, aveva la possibilità di estendersi principalmente in lunghezza secondo lo sviluppo della costa, in direzione nord-sud.
L’assetto urbano di Messina(3) si mantiene pressoché stabile in epoca romana, strutturandosi secondo il modello classico con un cardo ed un decumano. I Romani ne intuiscono la posizione di rilievo definendola caput viarium e attribuendole il privilegio di oppidum civium Romanorum. Ciò comporta la costruzione di una nuova cinta muraria tra Portalegni e Boccetta, inoltre rinvigorisce la sistemazione dello spazio civico al punto che Cicerone, nelle orazioni contro Verre, la definisce civitas maxima et locupletissima.
L’importanza della città si mantiene in età bizantina, dati i rapporti comprovati con l’Oriente, ma sfiorisce nel periodo arabo. L’insediamento, che fino ad allora aveva vissuto dei processi di ampliamento e consolidamento, si contrae nell’area di origine greca. Per i Saraceni, infatti, lo Stretto segna una frontiera ostile, non è affatto una via di traffici e comunicazione.
Nel 1061, con la presa di Messina da parte di Ruggero D’Altavilla, inizia la riconquista cristiana della Sicilia. La città rinasce, diventa clavis Siciliae, è nuovamente crocevia del commercio. Essa è ora approdo obbligato per i Crociati in viaggio verso la Palestina, megalopolis secondo alcune cronache del tempo.
Idrisi, geografo arabo alla corte di re Ruggero, così scrive: “Questa città di Messina, posta su uno de’ promontori dell’isola, quello cioè che guarda l’oriente, è circondata a ponente dalle montagne. Lieta la spiaggia, ferace il suolo, dove giardini ed ortaggi producono frutti abbondanti. Sonvi inoltre delle grosse fiumare con molti molini. E’ da noverare Messina tra i più egregi paesi e più prosperi, anche per la gran gente che va e che viene”.
(fine prima parte)
(1) Secondo Paul Vidal de la Blache, noto esponente del pensiero geografico francese, “la natura prepara il luogo e l’uomo lo organizza per consentirgli di corrispondere ai suoi problemi e ai suoi bisogni”.
(2) La scelta di tale toponimo, a ben vedere, evidenzia come la città fosse stata percepita fin dall’antichità più remota come “il porto” per antonomasia, porta d’ingresso della Sicilia e futuro crocevia dei traffici mediterranei.
(3) Il mutamento dell’antico toponimo avviene all’inizio del V sec. a.C. (494 a.C.) quando, all’indomani delle vittorie di Sparta nelle guerre messeniche, una parte della popolazione di Messene, città del Peloponneso, emigra in Sicilia su invito di Anassila tiranno di Reggio e, stabilendo a Zancle la propria sede, ne cambia il nome in Messanion.
D.B.
Le fiumare deviate e dimenticate.
L’interessante pezzo è da fare leggere a chi ha speso risorse pubbliche per ideare, progettare, effettuare mostre e gare di progettazione per un nuovo porto sul water front che cancella la foce del torrente portalegni spostato nel ‘600 dagli spagnoli da dentro la zona falcata all’odierno cavalcavia.
Dimenticavo. gli stessi politici e tecnici hanno sprecato denaro pubblico di Messina non solo per cancellare, progettualmente la foce del torrente portalegni ma anche per ideare un’isola al largo di San Raineri. Località nota per le batimetriche ripidissime e le correnti vorticose.
Ancora una cosa. Complimenti all’idea vincitrice il concorso di idee ed a tutti i membri della commissione. La previsione in quell’area di un grattacielo. Proprio nel luogo in cui i terreni sono costituiti da sabbie sature monogranulari (vi ricordate le case inghiottite dal fango dopo il sisma in Emilia ? Si quelle.