Subì oltre 300 attentati. Ci lascia l'ex sindaco di Sinopoli (RC) Luppino

Subì oltre 300 attentati. Ci lascia l’ex sindaco di Sinopoli (RC) Luppino

Mario Meliado

Subì oltre 300 attentati. Ci lascia l’ex sindaco di Sinopoli (RC) Luppino

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sabato 22 Maggio 2021 - 17:05

Fra i primissimi testimoni di giustizia del Reggino, inchiodò il potente clan Alvaro. A schiantarlo, una malattia inesorabile

Sapevamo tutti che sarebbe successo, inesorabilmente, e non troppo in là nel tempo. Ma adesso che Domenico Luppino – nel nostro caso, però, è maledettamente difficile, anzi impossibile non chiamarlo Mimmo – ci ha lasciato, raccontare è difficile. Molto difficile.

Sindaco. Della città degli Alvaro

Una veduta panoramica di Sinopoli (RC)

Per i testimoni di giustizia, si sa, a dispetto dell’incredibile e coraggiosissimo apporto alla Giustizia e al senso civico che offrono, la vita va a folate.
Nel caso di Mimmo Luppino, però, la storia diventa madre dolcissima e matrigna implacabile lo stesso giorno, il 27 maggio del 2002, quando Luppino – alla guida di una coalizione civica in salsa centrista – vince le Comunali e diventa sindaco.
Ma si capisce in pochi giorni che non sarebbe stato un “normale” sindaco di Sinopoli. No. Mimmo sarebbe stato il sindaco ostile “della città degli Alvaro”: un gigante buono, vissuto però come una sorta di corpo estraneo.

Famiglia sotto tiro

Il paradosso è che Mimmo Luppino sapeva bene “come si fa”.
Non era cresciuto tra i “picciotti” e neppure con le educande: «Sono cresciuto in un clima di minacce. La mia famiglia subiva attentati quando avevo soltanto dieci anni. Solo per un caso fortuito, una volta, sventarono il mio sequestro», ha avuto modo di ricordare il diretto interessato. Ciononostante, nessun atto eroico per decenni: «Abbiamo sempre cercato di mediare, come fanno in tanti… poi, a 40 anni, mi sono stancato». Certo era improbabile, alla vigilia, identificare in lui un politico “di rottura”: «Sono stato eletto con i voti buoni e con i voti mafiosi», ha ammesso con la solita voce pacata, con quell’estenuante, incontenibile onestà intellettuale.
Nei fatti, però, Mimmo non è stato “come gli altri”. Neanche per un giorno.

Coraggio e denunce

Ma Domenico Luppino, il reietto, “osa” fare di più.
Inconcepibilmente, non fa gli interessi della cosca Alvaro, ormai egemone in mezza Piana di Gioia Tauro e con “ganci” potenti – anche politici – pure a Reggio. No. Lui amministra nell’interesse della comunità. E denuncia. Quando vede qualcosa che non gli quadra, sospette infiltrazioni di ‘ndrangheta, probabili collusioni, per la prima volta, il sindaco di Sinopoli denuncia tutto. Denunce puntualmente servite a corroborare e meglio contestualizzare le accuse dei magistrati antimafia nei confronti del potente clan della Tirrenica reggina.
«Si pensa che chi fa il sindaco qui abbia sempre un “conto da saldare”: ma io non l’ho mai saldato, così il meccanismo s’è inceppato – ricordava lui stesso in un’intervista di diversi anni fa -. La ‘ndrangheta pensa che la cosa pubblica sia un bene da razziare. Ma di razzie, finché sono stato sindaco, non se ne son fatte».
Questa cosa non può durare a lungo, decide la ‘ndrina.

Il tempo delle intimidazioni

Gli Alvaro non tardano molto a far capire “chi comanda a Sinopoli”; almeno secondo la legge dei trogloditi, la legge dei clan.
E quindi, vediamo: gli bruciano il furgone e gli ammazzano il cane. Gli recapitano decine di minacce di morte e gli vandalizzano gli uliveti di famiglia. Terrorizzano lui e chi viveva accanto a lui al punto che gli dev’essere assegnata una scorta permanente. E poi l’intimidazione più barbara ed eclatante: i soliti sgherri senza cuore e senza attributi piazzano una bomba dentro il cimitero e fanno saltare in aria la tomba di suo padre. Un messaggio davvero inequivocabile per l’intero Paese.
Un paio di settimane dopo il 16 ottobre del 2005 – data dell’omicidio Fortugno –, lui sfila col gonfalone del Comune pianigiano contro le ‘ndrine e per ricordare il vicepresidente del Consiglio regionale trucidato a Locri.
Intimidazione dopo intimidazione. Alla fine, se ne conteranno più di 300 ai suoi danni. E intanto, attentato dopo attentato, non “molla”. No.
Anzi.
Continua a denunciare, il sindaco Luppino: e ha paura, certo che ha paura!, ce lo confida ripetutamente. Ma non abbandona mai quel suo sorriso contagiosissimo, né tantomeno incrina la sua schiena, che resta ben eretta.
…Per la criminalità organizzata locale è davvero troppo.

La reazione politica: a casa!

Il Consiglio comunale non è esattamente composto da personaggi con molte affinità elettive rispetto a Luppino. Quel suo modo di fare, che comunità un attimo meno soggiogate dalla criminalità organizzata chiamano “onestà”, risulta incomprensibile.
Il 17 gennaio 2006, dopo tre anni e mezzo di mandato con la fascia tricolore, sette consiglieri comunali – cioè oltre metà del plenum – rassegnano le dimissioni simultaneamente. Il primo cittadino viene rispedito a casa col più classico golpe bianco.
E nella più classica eterogenesi dei fini, è un atto perfettamente legittimo, la remissione del mandato da parte di vari singoli consiglieri, quello pur esercitato all’unisono. Che persegue però, di fatto, il più torbido e illecito degli scopi.

Nel mirino, a distanza di anni

Quel giorno, era il 17 gennaio del 2006. Luigi De Sena – che poi sarà vicecapo vicario della Polizia di Stato e poi vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia – era stato spedito a Reggio da poco. Dopo il delitto Fortugno, fungeva da Superprefetto: un Prefetto emblema della legalità, munito di poteri speciali nella lotta alla mafia.
Ecco, De Sena fu tra i pochi a capire all’istante cosa era successo quando la cosca l’aveva “posato”. E insistette all’inverosimile affinché Luppino si ricandidasse: per dare un segnale molto oltre il mero fronte sinopolese.
Ma le condizioni non c’erano, non c’erano proprio.
Successivamente, molti altri episodi sono stati perpetrati ai danni di Mimmo Luppino e dei suoi cari. Ma non l’hanno ammazzato, no. «Mi hanno inviato un messaggio chiaro: mi lasciano una possibilità», ebbe a dire lui. Chance che ovviamente questo testimone di giustizia ante litteram – quando il testimone di giustizia in Calabria neppure si sapeva esattamente cosa fosse – non volle cogliere.
Persino il timore della ‘ndrina e dei suoi squallidi giochetti a suon di violenza arrogante, sembrava svanito. Aveva preso il suo posto la consapevolezza dell’isolamento da parte dello Stato. «In molti hanno una mentalità mafiosa, alla quale aggiungono i poteri dello Stato: sono ancora più forti sia nell’isolarmi, sia nel controllarmi», ammise Mimmo Luppino, ormai ex sindaco-coraggio.
Anche negli ultimi anni, quando ormai l’ex primo cittadino “della città degli Alvaro” era da tempo imprenditore agricolo a tempo pieno, con la brillante avventura della cooperativa Giovani in vita, gli episodi continuarono. Incendi, ulivi tagliati, cose così.
E 300 sono tanti, eh.

Disegno omicida

Si deve al biellese Simone Canale, diventato organico al clan Alvaro e poi collaboratore di giustizia, se abbiamo certezze sul progetto della cosca d’eliminare Mimmo Luppino. Progetto, evidentemente, poi rientrato.
Il motivo? Per la cosca di Sinopoli, anzi più precisamente il ramo russi-mattunari, l’ex sindaco era un rompiscatole «perché occupava con la cooperativa i terreni confiscati o prossimi alla confisca degli Alvaro». Nell’aprile 2014, durante un colloquio interno alla ‘ndrina sinopolese, sarebbe stata decisa l’uccisione di Luppino. E Antonino Penna – intimo di Canale – disse: «Io ho l’uomo giusto», e si sarebbe riferito proprio al giovane Canale. «Avrei dovuto uccidere al posto di Micu ‘u merlu, ovvero Michele Alvaro, braccio destro di Corica Rocco – disse il “pentito” piemontese in una deposizione nel 2015 –. Faccio presente che io non conosco Luppino Domenico, e quindi l’organizzazione del suo assassinio avrebbe richiesto il supporto di altri sodali che mi avrebbero portato sul luogo deliberato come teatro dell’azione criminosa».
Lo stesso collaboratore Canale, successivamente, ebbe ad affermare che la ‘ndrina gli aveva chiesto di uccidere il suo stesso fratello perché “confidente”. E che sarebbero stati proprio gli Alvaro, su richiesta di Cosa Nostra e per volontà di politici romani, ad assassinare il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Il male

“A tempo perso”, per così dire, Mimmo Luppino rimase comunque fino all’ultimo testimonial di Giustizia; di quella vera, diceva qualche volta lui. Prese anche carta e penna per ricordare che lui, la poderosa inchiesta Eyphemos della Dda di Reggio Calabria, con le sue torbide cointeressenze tra clan, politica e affari, l’aveva prevista anni prima.
Poi, dopo l’incontro col Male costituito dalla ‘ndrangheta, a metà del 2020 si verificò l’incontro col male, quello difficile anche da nominare. E che lui chiamò per nome, senza paura come sempre, nel luogo più “pubblico” dei tempi odierni: la sua bacheca di Facebook.
Dopo tanti messaggi in cui, senza esprimersi in modo pieno e diretto, gli si chiedeva della sua salute, il suo post di verità del 10 agosto dello scorso anno. «Sono stato colpito da un cancro maligno al pancreas – scriveva così l’ex sindaco di Sinopoli –. Nonostante, da una parte, e grazie, dall’altra, a un intervento chirurgico durato ben 18 ore eseguito da una grande donna, sono ancora vivo. Non so per quanto tempo ancora. Ma sono ancora vivo».
Ieri, dopo circa 10 mesi, la notizia della sua dipartita.
«Ringrazio tutti per le condoglianze e per la vicinanza», ha scritto qualche ora fa sui social network la sua compagna di vita Caterina, la moglie.
I funerali di Mimmo Luppino si sono appena celebrati a Firenze, nella chiesa di Sant’Ambrogio.


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