Un racconto che ne racchiude tanti, distinti eppure intimamente collegati
A poche ore dal secondo incontro tra la città di Messina e Norberto Presta risuonano ancora agli orecchi dei presenti gli echi della sua prova precedente. Frammenti di vite condivise, andato in scena per la rassegna E' tempo di teatro, curata dall'associazione culturale Clan degli Attori, è un racconto che ne racchiude tanti, distinti eppure intimamente collegati.
Argentino di nascita, immigrato in Europa, clandestino prima, cittadino poi… Presta veste i panni dell’identità scissa di un individuo, incapace di ricucire i frammenti sparpagliati dal tempo e dal destino. E’ un fantasma in pigiama e vestaglia, brancolante fra ricordi che stenta a ricollegare ed ombre di esistenze passate, che si accavallano senza apparente nesso. E’ l’identità confusa di un paese, impaurito dalla mancanza dei punti di riferimento che ha volutamente cancellato, degli ideali che ha rifiutato, per ritrovarsi povero di mezzi e d’esperienza. “Penso all’Europa […], una società che non si riconosce perché nega l’altro, che perde la sua identità perché nega la sua storia, le sue storie, che dimentica e si fa sorda, che sta sempre peggio perché senza sapere di essere ricca nega la sua povertà, perché pur essendo umanista dimentica la sua solidarietà, la sua uguaglianza, la sua giustizia”.
Provocatorio e irridente, meditabondo, malinconico o sognante, giocoso e pungente… volteggia con movenze da saltimbanco tra i cocci di una storia individuale quanto collettiva, a stuzzicare il cane addormentato della coscienza, a ripescare i ricordi scomodi da sotto il tappeto.
Come in natura, il grande si specchia nel piccolo e viceversa. C’è un uomo alla deriva in un bicchiere. C’è un barcone alla deriva nello spazio-tempo, e riquadri bianchi da compilare a piacere, con nomi, epoche e destinazioni. Ma in mezzo c’è anche dell’altro. Un sottile rimprovero che dice “si cerca sempre di essere altro da ciò che si è!”
Poi la chiosa: “Ho capito che mi dispiace fare questo spettacolo, perché l’ho scritto trent’anni fa, ma è ancora vero”.
Laura Giacobbe