Un'innovativa rivisitazione della tragedia, che rende omaggio al dialetto calabrese ed alla sua potenza espressiva.
Terzo appuntamento con la rassegna dell’associazione culturale Clann Off, E' Tempo di Teatro. In scena la tragedia più truce di sempre, in un adattamento a cura di Germano Marano e Daiana Tripodi: Intr ' a Medea, il dramma tutto personale di una donna che ha dedicato la propria stessa esistenza all’uomo che ama, sacrificando ogni cosa in nome di un unione che credeva destinata all’eternità, per poi vederla sgretolarsi davanti ai suoi occhi. E’ una storia sempre attuale, e per questo una potenzialmente miccia, capace di infiammare gli animi come al tempo della sua stesura.
Nella versione alla quale assistiamo, la protagonista (Daiana Tripodi) è l’unica presenza sulla scena, ad eccezione delle due culle, mute testimoni della presenza della prole sventurata, ignara delle atrocità che stanno per compiersi. Medea vuota il sacco della sua anima, rivela al pubblico i suoi turbamenti ed il peso di un'esistenza che da un attimo all’altro ha perso di significato. Tra repentine oscillazioni d’umore, racconta di sé, delle sue nobili origini gettate al vento, della famiglia rinnegata e degli innumerevoli rischi corsi per costruire la gloria dell’amato. Ora si lancia in feroci invettive contro l’amore, origine e causa della sua sciagura, ora sussurra tra sé, o rivolta ai fantasmi del passato, avvolta in una nube di obnubilamento, lo sguardo stralunato.
La peculiarità di questa versione risiede nella grande cura dedicata all’aspetto linguistico. Gli autori compiono un’interessante ricerca etnoantropologica, che si realizza nella scelta di utilizzare il dialetto calabrese, simile per assonanza alle sonorità del greco antico. La lingua è anche il mezzo espressivo che l’interprete predilige, nell’insistenza con cui scandisce quei suoni aspri, e calca quelle finali prepotenti e dure, ad indicare l’animo della protagonista scosso da lotta intestina. La forza espressiva di un linguaggio antico si fa apprezzare nei giochi ritmici e nella musicalità del monologo. Tuttavia, la resa dello stesso arriva in maniera asciutta, con scarse concessioni ad un’emotività che suoni autentica. Spezzato risulta, a tratti, il filo narrativo, così come l’amalgama tra l’azione e la musica che l’accompagna.
I rischi sempre insiti nella scelta di riprodurre un classico si avvertono, in questo caso, nella difficoltà di tenere in equilibrio tutti i diversi elementi dell’orchestrazione scenica. Impresa notevole ed assolutamente degna di apprezzamento è, di contro, il lavoro di ricerca linguistica effettuato sul testo originale.
Laura Giacobbe