La favola musicale di Wolfgang Amadues Mozart è andata in scena con un buon successo di pubblico al Teatro Massimo di Palermo. Impressioni a cura di Giovanni Franciò
La prima rappresentazione di “Die Zauberflote” (Il Flauto magico) avvenne il 30 settembre del 1791 al Theater auf der Wieden di Vienna – gestito dall’autore del libretto, l’attore e cantante amico di Mozart Emanuel Schikaneder, che nell’occasione assunse il ruolo di Papageno – giusto due giorni dopo la conclusione della partitura da parte di Mozart. Sembra apparentemente incredibile che appena due mesi prima della morte, (5 dicembre 1791) Wolfgang Amadeus Mozart abbia composto una fiaba luminosa, ricca di elementi fantastici, (flauto e campanelli magici, draghi, animali incantati dal suono del flauto, l’uccellatore Papageno – una sorta di arlecchino tedesco – ecc), nonostante il terribile dramma incombente sulla sua vita, le precarie condizioni di salute che lo porteranno appunto alla morte.
Apparentemente, infatti, in quanto in realtà "Il Flauto magico" rappresenta la summa della poetica mozartiana dell’ultimo periodo, che consiste nel comprendere nello stesso tempo il dramma più angoscioso e la gioia più pura, entrambi trasfigurati dalla leggerezza, dalla divina ironia, dallo sguardo partecipe e ad un tempo distaccato con il quale il sommo musicista osserva le sue creature. Il miracolo del Flauto magico, da molti critici definito il suo testamento spirituale, consiste proprio nell’aver rappresentato in una sola opera tutti gli aspetti che caratterizzavano sino ad allora l’opera seria, l’opera buffa, la rappresentazione sacra, aggiungendo anche gli elementi della ormai prossima opera romantica, di cui il Flauto magico è da considerare precursore assoluto, amalgamando tutti i generi e riconducendoli ad unità; tale miracolo è ovviamente compiuto per merito della sublime musica di Mozart, che riesce nello stesso tempo ad aderire ad ogni personaggio, ora comico, ora tragico, ora ieratico, esaltandone le caratteristiche diversissime, spesso opposte fra di loro, e tuttavia lasciando nell’ascoltatore una impressione di assoluta unitaria armonia.
E così, in una perfetta simmetria, abbiamo Tamino, forse il primo personaggio romantico nella storia dell’opera, che si innamora di Pamina solo alla vista di un suo ritratto, ed è pronto ad affrontare tutte le terribili prove per amore; il suo contraltare Papageno, il buffo uccellatore che ama i piaceri semplici – mangiare, bere – ma che anela a trovare la sua Papagena, con la quale darà vita nel finale ad uno dei più celebri ed amati duetti buffi della storia dell’opera; la fredda regina della notte (Astrifiammante), personaggio di chiara derivazione dall’opera seria, animata dalla vendetta nei confronti di Sarastro per averle sottratto la figlia Pamina, con al suo seguito le tre dame, incaricate di guidare Tamino e Papageno (al quale donano rispettivamente il flauto ed il carillon magici) alla conquista di Pamina; il gran sacerdote Sarastro, con al seguito i sacerdoti del tempio di Iside e Osiride, evidente derivazione dalla musica sacra, la luce rispetto alla tenebre della regina della notte, saggio e giusto, il cui valore di riferimento è il perdono, in contrasto con la vendetta di Astrifiammante; i tre fanciulli, contraltare ovvio delle tre dame, che invece rivelano ai nostri eroi la giusta via da seguire; Monostatos, essere primitivo che tiene prigioniera Pamina su ordine di Sarastro, ma che verrà punito severamente da quest’ultimo per aver cercato di concupirla; ed infine Pamina, forse il personaggio più complesso, in quanto animato dal contrasto interiore fra la devozione a Sarastro, che la conduce nella saggezza, e l’amore per la madre, la perfida Regina della notte che le darà il pugnale per uccidere Sarastro, arma che Pamina deciderà di usare per uccidere se stessa, ma per il sentimento che alla fine prevale sugli altri, l’amore di Tamino; Pamina verrà fermata dai tre fanciulli, e l’opera si concluderà con il superamento delle prove di Tamino e Pamina insieme, con Papageno che finalmente troverà la sua Papagena, e con il trionfo del regno del bene di Sarastro sul regno del male della Regina della notte, sugellato dal perdono finale. La favola apparentemente ingenua cela invece una complessa simbologia massonica. Ricordiamo infatti che Mozart aderì ad una loggia massonica, attratto dagli ideali nobili perseguiti dalla massoneria settecentesca.
L’opera è nutrita di elementi massonici, come l’iniziazione di Tamino e Papageno, l’inneggiare continuo ai valori della fratellanza, dell’amicizia, del divenire uomo attraverso le prove più difficili. Il numero “3”, ritenuto il numero perfetto secondo la complessa simbologia massonica, caratterizza tutta l’opera, sia musicalmente – i tre accordi ripetuti, che ricorrono sovente nel corso dell’opera, ad iniziare dal bellissimo overture – sia rappresentativamente – le tre dame e i tre fanciulli, le tre prove del silenzio, dell’acqua e del fuoco, le tre porte del tempio ecc. – ma la simbologia, che potrebbe appesantire la rappresentazione, si scioglie magicamente in una favola, che può essere ascoltata ed amata dall’uomo più esigente e colto come dal fanciullo. Ha scritto efficacemente Busoni: “Esso (il Flauto magico) riunisce in sé l’elemento educativo, spettacolare, sacrale e divertente: al che una musica tanto affascinante si aggiunge, o piuttosto si libra su tutto e tutto comprende”. La pregevolissima regia di Roberto Andò, nell’allestimento del Teatro Massimo e del Teatro Regio di Torino, ha saputo rendere pienamente la magia ed i contrasti dell’opera operando delle scelte ora tradizionali ora innovative. Tradizionale ad esempio, ma sempre di grande effetto, la prima apparizione della regina della notte, avvolta da una cornice ovale, in alto rispetto al palcoscenico, a voler figurare la minacciosa grandezza del regno delle tenebre; molto gradevole l’ingresso degli animali attratti dal suono del flauto magico di Tamino, attori travestiti dai più vari animali che entrano non dal palcoscenico ma dalla platea, a stretto contatto con gli spettatori; anche i cantanti spesso scenderanno in platea a cantare, e tutti scenderanno dal palcoscenico ed usciranno percorrendo il corridoio principale della platea alla fine dell’opera, accompagnati dalle ultime frasi orchestrali, che strapperanno l’anticipato applauso, calorosissimo, da parte del pubblico assai numeroso. Molto bella la rappresentazione del tempio egizio e dei costumi (di Nanà Cecchi) di Sarastro e dei sacerdoti.
La trovata scenica che ci è sembrata più riuscita però è forse la barca a remi sospesa in aria con dentro i tre fanciulli che appaiono sempre come un deus ex machina, un vero aiuto divino degli angeli in soccorso dell’uomo in difficoltà! Molto convincente l’interpretazione dei cantanti, (messa in scena del 22 Ottobre) a cominciare da Tamino (Fabrizio Paesano), tenore dalla voce molto calda e gradevole, ma che interpreta il personaggio forse in maniera un po’ statica; Papageno, (Riccardo Novaro), applauditissimo, vero istrione dello spettacolo, al quale sono riservate forse le arie più amate e popolari dell’opera; la regina della notte, (Marie-Pierre Roy), soprano all’altezza nell’affrontare i difficilissimi gorgheggi che caratterizzano le sue due celeberrime arie; perfetta Papagena (Laura Catrani). Nell’unico duetto a lei riservato; impeccabile Monostatos (Alexander Krawetz), anche sotto il profilo della resa comica (esilarante ed apprezzata dal pubblico la scena in cui danza goffamente insieme agli altri servi di Sarastro sulle note del carillon magico suonato da Papageno); molto bene Sarastro (il basso Antonio Di Matteo), al quale sono affidate le due splendide arie di carattere ieratico che meglio sintetizzano il significato profondo dell’opera; bravissimi sia le tre dame (Anna Schoeck, Christine Knorren, Annette Jahns) che i tre fanciulli (Emanuela Ciminna, Federica Quattrocchi, Riccardo Romeo) applauditissimi; infine Pamina (Ekaterina Bakanova), a nostro avviso l’interpretazione più convincente, sofferta (come nella splendida aria “Ach, ich fuhl’s, es ist verschwunden” (lo sento, è finita!) in cui, credendo non più ricambiato il suo amore per Tamino, ne canta la fine, una delle vette dell’opera) ma anche soavemente leggera, come nel duetto con Papageno in cui canta le gioie dell’amore, in una parola, mozartiana.
Pregevole l’esecuzione dell’orchestra e coro del Teatro Massimo, diretta magistralmente da Gabriele Ferro, equilibratissima nella scelta dei tempi, con alcuni picchi notevoli, pensiamo ad es. alla dolcissima frase musicale con cui l’orchestra accompagna le ultime parole della seconda aria di Sarastro “Wen solche Lehre nicht erfreun, Verdienet nicht, ein Mensch zu sein” (colui che non gioisce di tali insegnamenti non è degno di essere un uomo). Il 4 dicembre 1791, un giorno prima di morire, Mozart, nel letto di morte, disse alla moglie Konstanze: “Una volta ancora vorrei sentirlo, il mio Flauto magico” e canticchiò l’aria di Papageno “Der Vogelfanger bin ich ja” (io sono l’uccellatore); allora un suo amico maestro di cappella, Roser, che lo assisteva al capezzale, gli cantò l’aria al pianoforte, con immensa gioia di Mozart; in questa breve nota biografica degli ultimi momenti della vita di Mozart, dove all’estremo dolore per una morte imminente si accompagna la voglia di ascoltare e cantare una delle arie più spensierate mai uscite dalla penna del musicista, si concentrano tutte le contraddizioni di questa enigmatica, immensa figura, che trovano nel Flauto magico la loro più estrema ed elevata sintesi. In scena fino al 27 Ottobre.
Giovanni Franciò