Lo spettacolo, con la regia di Giuseppe Dipasquale, immerge nel secondo atto il personaggio nella Sicilia 30 anni dopo Capaci
Nel trentennale della strage di Capaci “Medea” di Luciano Violante indaga la complessità abbracciata dall’eroina “negativa” Medea, in una riscrittura densa e originale, volta alla comparazione fra gli assassinii mafiosi in terra di Sicilia e quello compiuto dalla Regina proveniente dalla Colchide sulla propria prole nell’estremo tentativo di liberarla dalla prossima,per lei certa schiavitù promanante dal nuovo matrimonio del loro padre Giasone.
Meravigliosa, Viola Graziosi è riuscita a penetrare le nostre più celate corde, rappresentando, e sempre al meglio, una gamma di infinite sfumature dell’animo femminile nella struggente pièce al Teatro Annibale Maria di Francia, per la strepitosa regia di Giuseppe Dipasquale, a conclusione del ciclo di assoluta qualità portato avanti da Nutrimenti Terrestri nella nostra Messina.
Una rilettura, una Medea che ancora una volta si racconta, ma che non può definirsi riferita né ad infanticida rabbiosa, né a vendicatrice passionale, tout court, ma, semmai ad una Donna costretta a perpetrare un crimine efferato per preservare dalla sorte ignominiosa i propri figli.
Una sorta di performance in due atti, ove il primo è tutto imperniato sulla tragica autonarrazione, l’implacabile monologo di Medea dinanzi a un Giasone, seduto su un trono di fronte la prua della nave, che pare aver smarrito il proprio atteggiamento arrogante, divenendo un piccolo uomo attonito, quasi pietrificato al cospetto di quegli orrori dei quali è stato origine.
Ha perso tutto il Re, la moglie barbara e maga, la nuova consorte, i figli, e se ne sta a capo chino, quasi a leccarsi le ferite, mentre la Madre implacabile giunge al termine della rievocazione dei noti tragici fatti occorsi.
Una produzione Teatro della Città di Catania, che Viola Graziosi padroneggia non solo come di consueto, ma ancor più, da interprete d’eccellenza, capace di incarnare ogni gaglio psichico, e di rendere con sapienza cerebrale e viscerale ardore ogni piega e piaga della Maga più celeberrima del mito.
Il secondo atto ci conduce, attraverso lo scotto della pena dell’eterno esilio della Semidivina, in terra siciliana, ove Medea incontrerà altri estranei che lacrimano sulle tragiche sorti dei loro figli.
Un luogo ove “laghi di sangue si rinvengono negli sterminati campi di grano”, la nostra ossuta isola triangolare, ove forse si potrà finalmente obliare se stessi e la propria sorte, ma mai dimenticarla davvero, sperduta com’è in fondo al mondo.
La toccante piece ha avuto debutto palermitano nella Chiesa di San Domenico, il Pantheon degli Illustri, deputato ai funerali di Stato, ove si sono tenute anche le esequie e sono custodite le spoglie di Giovanni Falcone ed è stata trasmessa su RAI 5 proprio il giorno dell’assassinio del Giudice palermitano e degli uomini della Sua scorta, il 23 maggio, in occasione del trentennale.
Medea è la diversa, l’estranea, e Luciano Violante, già magistrato e presidente della Commissione parlamentare antimafia, ne dà un tocco differente da altre trasposizioni, allargandone il contesto per addivenire a questo insolito,e pur convincente parallelismo.
Una nave greca, un enorme velo… un sudario, un grido, quello di Medea, nell’incipit della performance.
E si conclude davvero in bellezza la Rassegna “NutrimentINPeriferia con questo spettacolo unico, che anche a Messina è giusto e bello sia approdato per concorrere a scuotere le nostre coscienze.
Figura mitologica esemplare nel comune sentire, nel suo di disarmante monologare , una sorta di espressione suprema di negatività, e nella auto- analisi confessoria,come per la restante parte puntualmente e meticolosamente diretta da un grande Giuseppe Dipasquale, la protagonista prende vita e parola e svela, ricomponendola, la propria identità. Lo spirito è di perdita, sommesso “ab initio”, poi sferzante e pungente e il ribollente magma sotteso è di difficile contenimento (e di difatti non è contenuto).
C’è l’urgenza di declamare i propri tormenti, e il personaggio incarnato vuole non descriversi, ma rivelarsi.
E il copioso pubblico “ha afferrato” con autentica partecipazione la rielaborazione della storia, immagino ciascuno secondo la propria personale visione… Certo gli echi degli accadimenti dolorosi non hanno reso semplice tale opera di caduta del velo… le riflessioni ad alta voce sono state declamate al culmine dell’angoscia, nelle fitte del rodimento che la passione genera e di certo, ritornando alle vite nostre, serberemo quel fardello di ricordi, contribuendo a tenere viva la memoria della protagonista e dei siciliani onesti, costretti a piangere i propri figli migliori.
E così, la Maga dotata di poteri divini, che si è resa protagonista di efferatezze in Colchide per venire in ausilio all’adorato Giasone, abbandonando il regno felice dei suoi genitori, per questo traditi, fattasi assassina, e donato il vello d’oro perché da lui fosse rubato ,infine è da Giasone buttata via per sposare Glauce, figlia del Re di Corinto, con tremende conseguenze sulla nuova sposa, che perirà tra atroci sofferenze, e sulla propria progenie , che perirà di lama materna. Medea, persa, non più supportata dai suoi incantesimi,dove la rabbia la sospinge, si lascia trasportare…. e qualcosa di enorme infuria nel suo cuore e nella mente, ma frammisto al pensiero atroce dei figli che avranno una sorte grama, che non può certo permettere, non potendo consentire che cadano in mani nemiche e allora…fa sì vendetta del marito, divenuto un estraneo nemico, attraverso la propria discendenza, ma non trattasi di sacrificio soltanto, ma più di un gesto concepito con una valenza salvifica.
Medea è ormai personaggio immortale, creato per artifizio…. per incarnare forse la rabbia del femminile, e quella contro il femminile, se irregolare e troppo ardente.
Ella narra sempre – anche nelle miriadi di versioni rispetto a quella Euripidea – la propria storia nell’ordine imposto da sentimenti e orride emozioni, un “dramatic monologue”, composito, arricchito, in questa che ne è stata altisonante rappresentazione, dalla scelta ragionata di costumi splendidi (in pizzo nero a ricoprire i colori sottesi nella fase luttuosa post-delitto,rievocato, e nell’esplosione colorata, successivamente all’ approdo in Sicilia), e consona scenografia minimalista,e impreziosito dal Requiem verdiano.
Medea non si auto celebra, di certo, ma, ricorda (a sé) la sua leggendaria esistenza, in Colchide, soffermandosi sui momenti fatali del tradimento dei congiunti (e, in fondo, delle proprie radici e peculiarità …. irregolari) e della vendetta, connessa sì alla rottura del patto di alleanza e di fedeltà coniugali, oramai perpetrata, in stato di ira passionale, ma, ancor più, a cagione della scelta di salvataggio dell’innocente prole dalla condizione, presagita, di permanenza in balia del consorte fedifrago e crudele e della matrigna.
Scene di interiori rappresentazioni, mai di distacco, di commiato dalla vita, ma di certo intrise di sconfortante amarezza.
Medea nei gorghi delle pene amorose, accecata dalla passione malsana, ma anche vigile nella ricostruzione mentale di un avvenire funesto, possibile scenario, dal quale vuole strappare i suoi figli.
E il pianto dell’Eroina per tale passo fatale si unisce a quello degli abitanti onesti – e sono in tanti – costretti a lacrimare per i più meritevoli di Essi, che più non sono.