Dietro la porta. L’incontro degli opposti

Dietro la porta. L’incontro degli opposti

Tosi Siragusa

Dietro la porta. L’incontro degli opposti

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domenica 04 Giugno 2017 - 07:04

Se i Totò e Vicè di Franco Scaldati appaiono lontani

L’atto unico di Gianni Quinto è andato in scena (in chiusura di stagione) nello scorso weekend presso il teatro cittadino con una partecipazione di pubblico abbastanza buona, tenuto conto dell’avvicendarsi della stagione estiva foriera di temperature che rendono sempre meno appetibile la frequentazione di sale della cultura non opportunamente attrezzate all’uopo. La commedia, a tratti amara – ove lo script e la regia sono riferibili ad un’unica mano – è stata sapientemente interpretata da Giacomo Battaglia e Gigi Miseferi, rispettivamente nei ruoli di Armando Meniconi, detto il “Principe” e Giovanni Passalacqua, il “Terrone”; una buona resa attoriale non è stata però bastevole per poter conferire alla piece un giudizio del tutto positivo.

Già la scelta delle due figure convince poco, non risultando abbastanza rappresentativa di due modi di essere ben definiti, ove Armando simboleggia il cosiddetto “Uomo vissuto” e dunque disilluso e amareggiato, che ha rinvenuto apparentemente nella condizione di solipsia la sua unica possibile dimensione, e Giovanni, il calabrese, al contrario è fin troppo condizionato dal suo essere empatico, tratto così caratterizzante da avergli fatto finire l’esistenza sotto forma di rossa e bruciante pira ad opera di ragazzi da niente in cerca di un’emozione e dopo esser stato abbandonato dal suo grande amore, la prostituta francese Brighitte. Troppi luoghi comuni poi anche nelle facili battute, soprattutto per voce del terrone, romantica figura che ha ingannato la vita e ora tenta di ingannare questa nuova condizione di sospensione attraverso un fiume di parole anche sul nulla, lui che in fondo era stato barbone per scelta; anche il principe, che poco a poco disvelerà il suo tragico vissuto, non è in grado di costituire prototipo di una categoria e la sua diffidenza verso l’umanità, si scoprirà, è stata la risultante di tante ferite, amorose in primis. L’avere caratteri difformi – anche opposti – non può essere sufficiente a farne due tipologie universali e, di contro, i due personaggi non sono dotati della forza poetica che connota i Totò e Vicè di Scaldati o gli altrettanto stralunati protagonisti di Aspettando Godot di Beckett.

Questo loro mondo attuale – ove trovano posto le metaforiche altalene – non può definirsi al di là, è piuttosto un “non luogo” una pausa di sospensione fra la vita terrena e quel che forse vi sarà oltre e occorrerà per i due ingannare l’attesa (che non si sa se e quando finirà) perché quella presenza potente e ipnotica, che improvvisamente è introdotta da una forte luce e musica, sembra ogni volta non vederli, non consentendo loro di superare la porta e preferendogli sempre gli ultimi arrivati. E allora possono solo “esperar”, e di speranza è connotata sempre la fragile attesa. Un’occasione mancata, insomma, potrebbe essere una possibile sintesi, ma non renderebbe completamente giustizia ad una rappresentazione che è stata comunque a tratti accattivante, ove l’atmosfera d’effetto ha contato certo più delle parole, purtroppo sovente stereotipate.

Tosi Siragusa

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