Affettate rivelazioni, false verità e orrori a basso costo nel testo di Stefano Massini portato in scena da Ottavia Piccolo e Silvano Piccardi
Berlino, 2009. Nell’appartamento del professor Hilder, docente di matematica con la passione per l’enigmistica, riemerge una storia malata della vecchia DDR con il solito corollario di controlli, dossieraggi, indottrinamenti: protagonista una professoressa di lettere, Ingrid Winz, soccorsa dopo un incidente in una notte piovosa. Di menzogna in menzogna, tra apparenze e oscurità, i ruoli si ribaltano fino alle definitive agnizioni, semplice placebo per le ferite inferte dalla storia.
Un quadretto ideale, l’Enigma di Stefano Massini, in cui far convergere banali nozioni e verità da sussidiario, rimasticature post-ideologiche che mutano il magma incandescente del passato in un grazioso soprammobile da salotto. Lo scontato riferimento ad Hannah Arendt per rendere commestibili le possibili derive filosofiche, le abusate citazioni dai film Le vite degli altri (di cui Enigma è quasi uno spin-off) e Goodbye, Lenin! (e i cetriolini, allora?) per allestire una cianfrusaglia emozionale drogata da affettate rivelazioni, false verità, orrori a basso costo: un’originalità figlia del pensiero unico, dispiegata con la sguaiata leggiadria di maître à penser televisivi da applauso preregistrato. Una volta rapiti dai loro contesti i protagonisti delle due pellicole summenzionate, Massini li abbandona in una terra di nessuno dove si prova di far coesistere la critica al capitalismo occidentale con la triste rievocazione del socialismo reale della Germania Est: centrata dunque l’impresa di rendere innocua la storia recente, Enigma si avvoltola con soddisfazione in analisi superficiali, brandelli di un bignami sfogliato distrattamente, invettive dove è comunque assente quel retrogusto nostalgico o la manzoniana crisi di coscienza che rendevano credibili le fonti dalle quali si è attinto.
Non bastano le pregevoli interpretazioni di Ottavia Piccolo e Silvano Piccardi sul palco del Vittorio Emanuele a redimere un testo spesso fuorviante, un naufragio intellettuale clamoroso per intenti e volontà. Una regia misurata (firmata dallo stesso Piccardi) prova a restituire un chiaroscuro polanskiano ad un’opera con pretese di magniloquenza, peccato originale di un lavoro che fa del colpo di scena la regola in luogo dell’eccezione. Intorno solo un laboratorio di ispirazioni malamente amalgamate, invasive come l’intrusione di un estraneo in una proprietà altrui.
Domenico Colosi