Il filologo classico Daniele Ventre ha curato un'ambiziosa traduzione del capolavoro di Omero
«L’ira tu celebra, dea, del figlio di Pèleo, Achille,
devastatrice che inflisse agli Achei dolori infiniti,
ed anzitempo nell’Ade molte anime forti d’eroi
inabissò, delle spoglie imbandì razzia per i cani
e per gli uccelli banchetto, consiglio di Zeus si compiva
sin dal principio, da quando si fecero ostili, a contesa
vennero, il re dei guerrieri Atride e lo splendido Achille»
Si apre così l’Iliade tradotta dal filologo classico Daniele Ventre e pubblicata dalla casa editrice messinese Mesogea (pp. 540; €27; 12×16). Un volume prestigioso – arricchito dalla prefazione di Luigi Spina e completato da una ricca bibliografia e un indice ragionato dei personaggi e dei luoghi – che esalta le capacità di Daniele Ventre, premiandone tanto la sperimentazione lessicale quanto la ricerca di una versione isometrica dell’epica greca arcaica.
Una nuova traduzione dell’Iliade oggi non è dunque né un azzardo né un’operazione velleitaria. Anzi, la riscoperta doverosa di un caposaldo della nostra cultura è anche il mezzo per affrontare le tematiche e i valori eterni di quest’opera, come sottolinea lo stesso, giovane e appassionato traduttore (napoletano, classe ‘74) che giunge all’Iliade dopo essersi messo alla prova con Petronio, Caritone di Afrodisia ed Eliodoro di Emesa. Ma è già pronta la traduzione dell’Odissea…
Perché ha voluto tradurre un testo cardine della letteratura mondiale come l’Iliade?
«Tra i filologi domina oggi, per la poesia, il modello della “traduzione di servizio”, che risponderebbe all’esigenza di rendere accessibile al lettore l’opera originale, conservandosi fedele alla lettera del testo. La “traduzione di servizio” è per lo più una traduzione in prosa, o al massimo sostituisce ogni verso dell’originale con un rigo prosastico (nel caso di quella che Gianfranco Contini chiama “traduzione alineare”). In realtà, nella sua falsa modestia, la “traduzione di servizio” è un mito: per sua natura ogni traduttore interpreta, nessun traduttore è in assoluto fedele. Di fronte alle traduzioni di servizio, che in pratica sono traduzioni stilisticamente “pigre”, il senso di perdita che giocoforza si accompagna a qualunque versione della poesia si aggrava, diventa un vero e proprio sentimento di lutto per la parola poetica definitivamente decomposta. E’ questo originario senso di lutto che mi ha spinto, dieci anni fa, a tentare una versione di Omero che cercasse di restituire, in qualche modo, oltre alla lettera del testo, anche gli aspetti formali dell’originale: le figure di suono, la cadenza del lungo verso epico, la formularità dello stile omerico. Ma si badi: al di là della forma, rispetto a molte “traduzioni di servizio” oggi in auge, la traduzione dell’Iliade pubblicata da Mesogea risulta spesso molto più fedele alla parola e alla struttura dell’opera; pure evita, nella sostanza, l’errore di farne un semplice calco».
Luigi Spina, nella bella prefazione, paragona diverse celebre traduzioni con la sua. Ha avvertito la responsabilità mutando alcuni famosi passaggi?
«Più che altro mi ha fatto sentire un po’ spaurito il vedermi associato, nella prefazione di Luigi Spina, a certi grandi nomi della storia delle traduzioni omeriche. Scherzi a parte, il peso della responsabilità ogni traduttore di un testo poetico deve assumerselo, all’inizio di quello che a molti sembrerà comunque un folle volo. In concreto, tuttavia, la traduzione da me proposta innova, ma spesso anche recupera soluzioni dei suoi predecessori illustri, o riprende a impiegare, dove possibile, moduli stilistici della poesia classica italiana, nel tentativo di ricreare in qualche maniera quell’aura tradizionale che è propria dell’originale greco. Qualcuno potrebbe accusarmi di aver riesumato l’antica “traduzione aromatica”, come la chiamava Salvatore Quasimodo. E’ uno dei tanti rischi che mi sono assunto. Sempre meglio una traduzione aromatica che una traduzione insapore».
L’Iliade è uno dei testi fondamentali della cultura intesa in senso universale, fuori dal tempo. Fra i diversi valori che l’opera celebra, qual è quello che l’ha colpita maggiormente?
«Simone Weil definì l’Iliade “il poema della forza”, eppure il mondo di Omero sottende una visione meno brutale di quanto si sia portati a pensare di solito. L’Iliade comincia con un doppio sopruso: Agamennone, minacciando un anziano sacerdote di Apollo, offende il dio; più tardi, defraudando Achille del suo dono, disconosce in pubblico il valore dell’eroe. In entrambi i casi a essere negato è il rapporto fra il segno (onore dovuto al sacerdote, dono dovuto all’eroe) e il significato (sacralità del sacerdote, valore dell’eroe). In entrambi i casi il risultato è il disastro: Apollo stermina gli Achei con la peste; più tardi Ettore li trucida in battaglia. In scena è dunque il dramma del potere che in nome del proprio interesse e della propria affermazione sconvolge con spudorata arroganza ogni criterio di senso e ogni principio di realtà, senza curarsi della lacerazione profonda che ciò comporta e delle conseguenze che ne derivano. Il piano di Zeus, che ristabilisce l’onore di Achille –non senza un prezzo atroce, la morte di Patroclo – ricostituisce l’ordine che Agamennone ha profanato. Al centro di questo dramma è il percorso del protagonista come uomo: di fronte al sopruso Achille, eroe della forza e della gloria, dichiara che la dignità umana non nasce dai riconoscimenti effimeri di un potere volubile, ma dal valore personale e dal fato di Zeus; nel lutto e nella vendetta per Patroclo, Zeus concede all’eroe una nuova gloria, quella di trionfare non sui nemici in campo, ma sull’istinto ferino che lo indurrebbe a sconciare all’infinito il cadavere di Ettore. La scena di conciliazione finale, in cui Achille rende il corpo di Ettore a Priamo, chiude il poema nel segno del riconoscimento della dignità umana anche nel nemico, accomunato a noi dal dolore, al di là del conflitto. Questi nuclei tematici, e i valori che rappresentano, dànno il senso ultimo dell’Iliade, al di là del motivo della forza».
La figura di Omero ha destato grande curiosità e innumerevoli leggende. Se in passato venivano elaborate biografie, recentemente si è messa in discussione persino la sua stessa esistenza. Lei, da studioso scrupoloso, cosa ne pensa?
«La questione omerica pone molteplici interrogativi. Chiariamo anzitutto che il nome di Omero di per sé non fa riferimento ad alcun personaggio reale. Resta valido l’argomento del Vico: dietro la figura di Omero, patrono della poesia, si nasconde la categoria professionale dei cantori, artigiani della parola che si esibiscono in pubblico, raccoglitori di canti. In pratica “Omero” significa “canto epico”, ed è per questo che gli antichi attribuivano al leggendario poeta una quantità inverosimile di opere, oltre all’Iliade e all’Odissea; per di più lo credevano cieco, secondo l’immagine consacrata del vecchio saggio, forse diffusasi nel Mediterraneo a partire dall’Egitto. Quello della composizione dell’Iliade e dell’Odissea è un altro discorso. I due grandi poemi sono intessuti d’una lingua d’arte ibrida, usata soltanto per l’epopea e mai parlata in altro contesto. Le tradizioni a cui fanno riferimento sono quelle della poesia orale degli aedi, che in assenza di ogni forma di scrittura tramandarono (e in pratica reinterpretarono e tradussero) di voce in voce, di dialetto in dialetto, di stirpe in stirpe, il mito storico della distruzione di Ilio (avvenuta nel XIII sec. a. C.). Il materiale del poema e la sua lingua non sono perciò parto della mente di un autore, ma sono frutto di una tradizione orale di secoli. L’essenziale unità narrativa dell’Iliade, e gli stessi suoi tic compositivi, inducono tuttavia a pensare che il poema in sé (o almeno la gran parte di esso) sia espressione di una personalità poetica unica: un cantore che improvvisò la sua narrazione in una performance-fiume, perché degli scribi la registrassero su papiro o su pelle. Del resto è ben noto che i cantori epici di una cultura in prevalenza orale, come quella greca arcaica, possono produrre, senza ausilio della scrittura, poemi estremamente lunghi, di molte decine di migliaia di versi. Gli studi di Milman Parry sui cantori della Jugoslavia degli anni ’30 del secolo scorso e le indagini etnologiche condotte oggi sui bardi tibetani lo documentano con ampiezza. I due poemi omerici, probabilmente composti da due autori distinti, erano in ogni caso opere aperte: attestano non solo la tradizione precedente la loro genesi di VIII sec., ma anche le successive aggiunte, che si protrassero fino al V sec. a.C.»
Forse le parti più complicate e ardue da tradurre sono quelle a cui si tiene di più e che si considerano le più belle, probabilmente perché si ha paura di non rendere ad esse giustizia nella propria lingua. C’è stata questa difficoltà/sfida nella sua Iliade? Se sì, in quale parte?
«La traduzione di un’opera come l’Iliade è una sfida permanente, una continua lotta con l’angelo che si può solo sperare di perdere senza troppi danni collaterali per il testo e per il suo fruitore. Già l’esordio del poema (proemio-peste-ira di Achille) appare irto di ostacoli e di nodi. I passi più noti (l’incontro fra Ettore e Andromaca, l’ambasceria del IX libro, la morte di Patroclo, lo scudo di Achille, il duello fra Achille ed Ettore, il riscatto di Ettore) sono poi quelli che più si teme di ferire e di sminuire nella loro sublimità; un discorso non dissimile vale per le similitudini e per l’universo che descrivono, pullulante di vita. Un tour de force a sé, sul piano metrico-verbale, è costituito dal Catalogo delle Navi del II libro, con la magia evocativa dei nomi degli eroi che lo popolano».
Infine le vorrei chiedere: ha pensato di tradurre anche l’Odissea?
«La traduzione dell’Odissea è già stata ultimata, quasi tre anni fa, ed è in fase di revisione stilistica, in attesa che l’editore (eroico quasi quanto i personaggi dei poemi, visti i tempi) raccolga di nuovo la sfida. Di recente mi sono dedicato alla versione, sempre in esametri e avendo cura di rispettare i richiami intertestuali, dei due poemi di Esiodo (Teogonia e Opere e giorni), nonché dei cosiddetti Inni omerici. La traduzione dell’intero corpus della poesia esametrica greca arcaica giuntaci integra è stata quasi una naturale conseguenza della traduzione di Omero».
Daniele Ventre, filologo classico, dopo essersi occupato della lingua e delle strutture narrative del Satyricon di Petronio e degli autori del romanzo greco, da Caritone di Afrodisia a Eliodoro di Emesa, ci dà un saggio della sperimentazione e della ricerca che da anni conduce sulle possibilità di una versione isometrica dell’epica greca arcaica.
Sul web: http://www.mesogea.it/omero/libro/la-grande/iliade.html
