Una grande Chiara Trimarchi ai Magazzini del Sale, per un dramma tratto da A. Pinter
Ai Magazzini del Sale toccante performance, che trae ispirazione dall’opera di A. Pinter “Una specie di Alaska”, magistralmente resa da Chiara Trimarchi, unitamente a Stefania Pecora e Orazio Berenato, diretta impeccabilmente dalla stessa S. Pecora.
Non si può che lodare la immensa grandezza della interprete Chiara Trimarchi, che ci ha consegnato una protagonista rifulgente di luce, espressione poetica dalle mille sfumature che albergano in chi si risveglia dopo un tempo infinito, ventinove anni, vissuti dagli altri intorno a lei. Il dolore congelato, in quella specie di Alaska, fatica a venir fuori dalle raggelate e in uno congestionate stratificazioni, e lentamente potrebbe divorare quel che è residuato da quella esistenza in letargo, addormentata, silenziosa, ma non morta, dalla quale l’adolescente buffa e piena di sogni deve riemergere oramai adulta e non partecipe delle stagioni pregresse, di giovane donna soprattutto.
Il testo, dall’ atto unico pinteriano, datato 1982, riprende la storia (vera), narrata da Oliver Sacks in “Risvegli”, quella di Deborah, appunto, che da ragazzina, dopo quasi trent’anni riemerge dall’oblio di sé, convinta di dover festeggiare il suo 15° compleanno, mentre il mondo le è scivolato addosso, incurante del suo sonno.
Si indagano i percorsi della memoria, i ricordi, i pensieri e i sogni generati da quel drammatico accadimento.
Gli stati mentali di Deborah, mentre Hornby, il sanitario che l’ha lungamente assistita ed ora risvegliata con un nuovo farmaco, e che deve essere misurato e fermo, (reso da Orazio Berenato) e l’affettuosa sorella maggiore Pauline, amorevole, emotiva, ma anche trattenuta,(interpretata da Stefania Pecora) tentano di riportarla ai cambiamenti del mondo reale, alternando, bugie a verità, attraversano tutte le possibili gamme di percezioni, rese con stupefacente naturalezza e verosimiglianza, con l’ausilio delle sfumature intermedie. “Qui sta accadendo qualcosa”, è la prima battuta di Deborah, la prima del testo.
Pauline, non ascoltata dalla sorella mentre tenta di raccontare la cruda verità, rappresenta la consapevolezza del passato, mentre Deborah non può che percepire solo il tempo contingente. Si avverte, forte, il conflitto fra passato e presente e Deborah non può che sentire solo il tempo di allora che per lei è l’adesso…il cane, le colazioni, la madre che le rimbocca le coperte, Jack, il suo ragazzo…Il tempo del teatro, peraltro, è sempre il presente, in ogni messinscena.
Dall’oggettività della trama, alla soggettività della ricezione della trama, e ognuno dei numerosi spettatori, di certo affascinati dalla lodevole mise en scene, avranno vissuto la stessa secondo le intermediazioni del personale modo di essere.
La scenografia, giustamente essenziale, con una poltrona e una sedia, a far quasi da quinte, e un tavolino porta vaso da fiori, quelli che rimandano al tempo andato…quando la giovanissima Deborah rimase immobile e bloccata, con il mazzo floreale che nessuno riuscì a toglierle di mano.
Le musiche, ancora, solo a sottolineare i passaggi fondamentali, con echi di quel tempo inesorabilmente passato, ma che è l’unico che la protagonista può sentire quale a lei consono.
E così quella terribile epidemia, diffusasi prima in Europa e poi nel mondo, poi identificata quale malattia del sonno, che generò in dieci anni cinque milioni di vittime, portandone a morte un terzo, è celebrata e onorata in questa stupenda piece, dalla intitolazione suggestiva, che genera articolate esegesi. Potrebbe infatti riferirsi al tempo elargito agli umani sulla terra, o significare quel luogo in cui rifugiarsi quando non vogliamo o possiamo esser presenti.
Si aprono, in ogni caso, inquietanti riflessioni: come reagiremmo se malauguratamente ci venissimo a trovare nelle drammatiche condizioni della Deborah della rappresentazione, per trenta anni immersi in un sonno freddo, mentre tutti gli altri erano viventi…? al risveglio molto probabilmente la temporanea dimora resterebbe per lungo tempo “quell’altrove” da cui siamo riemersi, con innegabili difficoltà a integrarci nel “qui ed ora”.