La dimora storica, oggi sede della Fondazione, si racconta da sé
L’emozione ti assale quando, dopo una rapida sequenza di curve, al Km. 109 della Strada Statale 113, l’immagine di Villa Piccolo si impone allo sguardo di chi percorre la Nazionale e sembra subito di trovarsi, come protagonisti, in uno degli acquerelli in cui la ritrasse il suo padrone di casa, Casimiro Piccolo, l’ultimo Barone di Calanovella.
Su un poggio che domina la pianura orlandina, punteggiata dell’arancio, del giallo e del rosso degli agrumeti, sorge il palazzo, una costruzione signorile dei primi del Novecento in cui si ritirò a vivere la nobile famiglia. È così che dagli anni ’30, per la baronessa Teresa, il baronetto Casimiro, la baronessina Agata Giovanna e il cavaliere Lucio, all’indirizzo palermitano di “Via Libertà 13” si sostituì un generico “Villa Vina, Contrada Piana, Naso”, poi Capo d’Orlando, in seguito alla costituzione del Comune.
La villa, fino alla morte di Agata, rappresentava un piccolo microcosmo, in un formicolante via vai di camerieri, cuochi, domestici, campieri che accudivano la casa e la proprietà; ma anche uomini e donne di cultura, che venivano per conoscere da vicino il poeta e i suoi fratelli. “Le bellezze di qui non mi fanno dimenticare quelle della vostra casa affascinante tra i fiori stupendi”, scriveva Camilla Cederna nel 1963 da Corfù in una cartolina indirizzata ai tre fratelli, tracciando quasi con un filo di matita nel pensiero un’associazione mentale tra i due luoghi e sembra di leggere Daffodils di William Wordsworth.
Il giardino della villa è un tesoro nel tesoro: un infinito pergolato di glicini accompagna il visitatore mentre un occhio, e immediatamente dopo una sosta, va a quel piccolo rettangolo cinto da un’inferriata all’ombra di un pino centenario, il cimitero dei cani, costruito secondo il meglio della tradizione anglosassone, cara al poeta Lucio e all’acquerellista e fotografo Casimiro, come quello vittoriano di Hyde Park, a Londra.
Sembra di rivederli correre, Gyp, a cui un’amica di famiglia mandava i saluti con un telegramma nel ’54, Puch, che doveva il suo nome allo spiritello dispettoso della mitologia britannica, o Malatedda, probabilmente stanca, a godere dei raggi di un timido sole. E ancora avanti, fino ad arrivare al mitico sedile a mezzaluna dove sembra di ritrovare, come nell’immortale fotografia che ne ha consacrato la gloria, Lucio accovacciato e il cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa in riflessione.
Se invece si fosse fatto un giro intorno alla casa, ci si sarebbe imbattuti in piccoli specchi di cielo riflessi nelle vasche delle ninfee, per poi cercare e trovare il blu dei fiori della Puya Bertoniana, unico esemplare in Sicilia, la pianta di origine andina che la botanica Agata Giovanna studiò, curò e amò come una figlia. A Villa Piccolo tutto è fiaba, tutto è sogno. Si cade in una dimensione onirica che rapisce e butta come sulla scena di un palco, ovviamente di notte, una di quelle “placide notti di Piana” a cui pensava Fortunio Parodi di Belsito durante una guardia militare nel 1924, quando scrive una cartolina a Lucio, ricordandone le “strane musiche”. Ma la notte era il regno di Casimiro, alias Don Procopio, così chiamato per dire che era metodico e brontolone, che la trascorreva nel proprio laboratorio a sviluppare le foto con cui catturava tutto quanto lo colpiva, o a dipingere con gli acquerelli personaggi fantastici, forse ricordi di favole di gnomi e orchi che le bambinaie nordiche solevano raccontargli, come Amelìe, che nel 1903 invia una cartolina con un curioso bambino che all’ombra di un fungo regge un porcellino ammaestrato, o Josephìne Brunner, ma anche soggetti in cui si imbatteva tra le raffigurazioni dei libri o delle cartoline illustrate, come una della zia Lina, animata da gnomi dalla lunga barba e dai lunghi cappelli assorti nel fumare pipe Churchwarden o a intrattenersi in danze con Idriadi.
Entrando in casa si respira già d’emblée il barocco delle poesie di Lucio, ma un barocco raffinato ed elegante, non pomposo, non kitsch, ma delicato, a tratti discreto. È il barocco, non nel senso di stile, ma di gusto, degli oggetti, che raccontano un romanzo a parte: le vetrine in tartaruga, i mobili in ebano e madreperla, il capezzale Luigi XVI in legno bianco con le tre statuine in avorio rappresentanti la Sacra Famiglia nella stanza di Tomasi di Lampedusa, le angoliere, i secretaire e le porcellane, cinesi, ispano-moresche, napoletane e siciliane. Sette di fattura cinese gliene avrebbe procurate a Casimiro l’antiquario Mario De Ciccio, come scrive in una cartolina nel ’60.
Per non parlare della biblioteca: duemilaquattrocento testi di filosofia, letteratura, occultistica, botanica, cucina. Tutto questo era, ed è, Villa Piccolo. Un carosello di mondi estinti da cui è difficile venir fuori, una volta conosciuto, una volta toccato. Da cinquant’anni la memoria dei Piccolo di Calanovella è affidata all’omonima Fondazione su iniziativa di Casimiro, per tutelare, dopo la morte del fratello Lucio, il patrimonio culturale, librario, naturalistico e artistico della villa e della famiglia.
Vittorio TumeoV