Un pomeriggio di pioggia, tra i profughi del Pala Nebiolo

Un pomeriggio di pioggia, tra i profughi del Pala Nebiolo

Eleonora Corace

Un pomeriggio di pioggia, tra i profughi del Pala Nebiolo

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sabato 12 Ottobre 2013 - 08:36

Siamo tornati tra i profughi del Pala Nebiolo, per ascoltare le loro storie, raccogliere le loro speranze, i sogni naufragati in una notte di morte e fiamme.

“A Lampedusa ho visto la fine del mondo”. È il commento di un’operatrice della Croce Rossa. Luogo: Pala Nebiolo, una struttura sportiva dell’università di Messina adibita a dormitorio collettivo per 52 persone, ragazzi provenienti per la maggior parte dalla Somalia o dall’Eritrea, paesi talmente sconvolti da carestie e guerre, che i cittadini che approdano sulle sponde Europee hanno il diritto di essere riconosciuti come rifugiati e, dunque, di non essere considerati come immigrati. Tutti giovani, anche giovanissimi. È pomeriggio, fuori comincia a piovere, la temperatura si abbassa. “Fa freddo qui!” commenta, tra lo scandalizzato e lo stupito, qualcuno del gruppo con il quale siamo riusciti ad entrare ancora nel centro, all’ingresso nella palestra-dormitorio. “Non ne parliamo” esplode una crocerossina: “Abbiamo alberghi… l’ex Ospedale Margherita, con camere singole attrezzate di sanitari…e invece…”.

La palestra è semi vuota, da oggi gli ospiti hanno il permesso di uscire in determinate fasce orarie. Subito all’ingresso si srotola la fila delle cinquantadue brandine, una accanto all’altra, disposte quasi a ferro di cavallo ad una estremità, nella parte opposta i tavoli che servono anche da refettorio, dove sono seduti un gruppo di volontari della Croce rossa. Nessuno dice che i volontari seduti ai tavoli di fronte siano lì per controllare, anche loro stanno solo passando il tempo, tra due chiacchiere e magari una partita a carte, ma sarà la suggestione del luogo, sarà l’atmosfera tetra della pioggia che cade a dirotto o l’ampiezza spaesante e vuota del locale, la situazione fa comunque molto “effetto Panopticon”. Non tutti i letti hanno i materassi, alcune brandine, più che veri e propri letti, assomigliano a delle sdraio, stesi su copriletti o plaid anche teli da doccia.

“It wasn't easy…”. Lo ripete alla fine di ogni periodo, mentre parla delle varie tappe del suo viaggio dall’Eritrea a Lampedusa. La tratta del deserto, l’imbarco in Libia, la traversata, lo sbarco. È un ragazzo eritreo di nemmeno vent’anni, l’unico di un gruppetto di tre eritrei seduti sulla sponda di un letto, che alza lo sguardo e risponde ai nostri saluti e alle nostre domande. Il suo compagno a sinistra sfoglia un opuscolo promozionale per gli sconti di un supermercato, quello a destra fissa il pavimento. “It wasn’t easy…”, ripete abbassando gli occhi, sempre però con un sorriso educato, quasi a scusarsi se si sta lamentando. Racconta che è passato in Libia dal deserto, che i libici hanno aperto il fuoco mentre si stavano imbarcando, che sulla barca, infine, erano quasi cinquecento, che durante la traversata diversi sono morti e sono stati gettati in mare. “It wasn’t easy..”. “Lo so”, rispondiamo in coro, risposta empatica quanto stupida: l’abbiamo letto, l’abbiamo sentito raccontare, ma concretamente non lo sappiamo…”

Di spari al momento dell’imbarco parla anche un ragazzo del Ghana, steso sulla sua brandina a fissare il soffitto. Racconta che dal suo paese erano partiti in due, l’amico è stato ucciso proprio al momento di salire sulla barca per l’isola di Lampedusa dagli spari da parte libica. Due brande più in là, un altro ragazzo ha un piede fasciato. È scivolato mentre faceva la doccia, è stato portato subito al pronto soccorso. “Ora tutto bene” scandisce in italiano e sorride. Si sta provvedendo a portare in ospedale un altro degli ospiti, con problemi ad un molare.

“Che fate qui? Come passate il tempo?”. Smorfia, “giriamo intorno” è la risposta accompagnata dal gesto eloquente e svogliato della mano. È sempre il ragazzo eritreo giovanissimo, quello che sorride si, ma solo per educazione, che per un attimo abbassa lo sguardo e fissa il vuoto ogni volta che ripercorre le tragiche tappe del suo lungo viaggio e che parla a voce bassissima. Tanto che alla difficoltà di sentirlo sopperiscono a volte solo i gesti con cui accompagna il discorso. È preoccupato, non è riuscito a mettersi in contatto con la famiglia in Eritrea. Domanda: “Avete contatti in Europa?” sguardi sconcertati, questa volta anche da parte dei due ragazzi che affiancano il nostro interlocutore. “No” ammettono mestamente. È tempo di andare, prima dei saluti però, il nostro interlocutore eritreo si fa coraggio e pone lui una domanda: “Quanto tempo rimarremo qui?”. Domanda decisamente scomoda, ancora nessuno l’ha saputo con certezza, nemmeno le forze dell’ordine sanno dirlo. Annuisce, scettico. Allora , tra le ipotesi che sono circolate in questi giorni, che vanno dalle due settimane, ai tre mesi e ad oltranza, qualcuno sceglie la più confortante: “Due settimane”, dice. “Come…qui?”, il ragazzo sgrana gli occhi e allarga le braccia ad indicare il resto delle brande e della sala: “Qui?” è sgomento.

Salutiamo. All’esterno qualcuno sfida la pioggia e resta ostinatamente in disparte, accovacciato sui gradini delle scale antincendio che circondano la struttura ginnica. Forse la pioggia è solo un piccolo prezzo da pagare per avere un poco di raccoglimento e solitudine.

Viale Annunziata, si scende ormai, verso il centro, verso quelle case tanto scontate, per noi, da sembrarci spesso delle prigioni. Un gruppetto di ragazzi del centro risale verso monte, tornano al Pala Nebiolo dopo la prima escursione esterna. Forse tra qualche giorno qualche onesto cittadino messinese si lamenterà del fatto che possono uscire dal Centro, avanzando qualche presunta e oscura motivazione di sicurezza, che è l’altro nome del razzismo in un’epoca troppo politicamente corretta per chiamare le cose semplicemente per quello che sono.

Eleonora Corace

2 commenti

  1. puzza di bruciato 12 Ottobre 2013 09:14

    Ragazzi ma non facciamoli sentire come bestie rare tipo zoo.. Se possiamo aiutiamoli senza spettacolare troppo la loro situazione..

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  2. Hombre de barro 12 Ottobre 2013 13:17

    Poverini! Li avete messi in una struttura nuova di zecca al coperto..con tanto di lettini materassi e coperte… mentre NOI SENZATETTO MESSINESI ieri siamo stati sotto l’acqua tutto il giorno, e per cosa poi? Per sentire questi commenti:
    ” “Fa freddo qui!” commenta, tra lo scandalizzato e lo stupito, qualcuno del gruppo con il quale siamo riusciti ad entrare ancora nel centro, all’ingresso nella palestra-dormitorio. “Non ne parliamo” esplode una crocerossina: “Abbiamo alberghi… l’ex Ospedale Margherita, con camere singole attrezzate di sanitari…e invece…”.

    GRAZIE A TUTTE LE ISTITUZIONI…COMUNE E CROCE ROSSA IN TESTA!

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