Dopo che i migranti hanno messo piede al Molo Marconi, ieri pomeriggio, le indagini della Squadra Mobile e della Guardia Costiera erano scattate subito. Decisive, anche in questo caso, le testimonianze dei sopravvissuti.
Sono state le atroci testimonianze dei 392 migranti sbarcati ieri nel Porto di Messina a permettere di dare un nome ed un volto a chi, materialmente, guidava i barconi su cui domenica mattina sono stati salvati in mare aperto, nel Canale di Sicilia. Erano tre le imbarcazioni più che malandate su cui i profughi, giunti ieri pomeriggio in città, avevano intrapreso il loro viaggio della speranza dalle coste della Libia fino alle coste della Sicilia.
Nel primo barcone soccorso dal pattugliatore Diciotti, poco dopo le 9, c’erano 82 migranti, tra uomini e donne. Le indagini hanno permesso di appurare che, a guidarlo, erano in due: Boubcar Boiro, senegalese di 29 anni, e Seituwa Lucky, nigeriano di 30 anni. Nel secondo barcone soccorso poche ore dopo, invece, c’erano 96 profughi. Al timone Arouna Giatta, 19 anni del Gambia, e Ola Assisi, nigeriano di 48 anni. A bordo del terzo scafo, infine, gli uomini della nave Sirio hanno trovato 97 persone. Questa volta a guidare il barcone c’erano i nigeriani Tony Peter, 26 anni, e Kayode Palmer Sagie, 30 anni. Per tutti loro si sono aperte le porte del Carcere di Gazzi con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Dopo che i migranti hanno messo piede al Molo Marconi, ieri pomeriggio, le indagini della Squadra Mobile e della Guardia Costiera erano scattate subito. Decisive, anche in questo caso, le testimonianze dei sopravvissuti. Tutti loro sono stati ascoltati a lungo. Ognuno ha raccontato il proprio drammatico viaggio, talvolta iniziato mesi e mesi prima. Alcuni hanno detto di esser stati costretti a sgobbare per giorni senza percepire alcun compenso, con la sola promessa che il loro lavoro sarebbe servito a pagare il viaggio. “Mi sono recato in Libia per trovare lavoro con lo scopo di mantenere la mia famiglia – è stata la testimonianza di uno di loro – La prima città in cui mi sono recato in detto paese è SABA in cui, invece di trovare lavoro, sono stato confinato da alcune persone libiche in una stanza con molti altri soggetti che versavano nelle mie stesse condizioni. Spesso ci picchiavano, ci nutrivano soltanto una volta al dì e ci intimavano di rimanere in silenzio per tutto il tempo, oltre ciò non ci era permesso neanche di uscire. Nella stanza di cui sopra sono rimasto confinato per circa un mese ed una settimana. I libici che ci tenevano chiusi in questa stanza ci obbligavano a chiamare a casa per far effettuare ai nostri familiari dei pagamenti su un conto corrente affinché potessimo andare in Italia”.
Tutti hanno raccontato che, dopo aver preso contatti con i libici che organizzavano i viaggi, sono stati costretti a sborsare soldi su soldi. Poi il solito iter verso l’ormai nota spiaggia della cittadina di Zwara dove ad attenderli c’erano diversi uomini mascherati ed armati di tutto punto che li hanno obbligati a salire sui gommoni. “Mi ha accompagnato presso la spiaggia di Zuwara – ha continuato uno di loro – dove ad attenderci vi erano alcuni libici con il viso travisato. Qui ho subito violenze da parte di queste persone, in particolare sono stato legato e malmenato. Mi hanno legato i piedi e appeso ad un albero e venivo malmenato. Tale rituale veniva utilizzato con quasi tutti gli uomini che si trovavano nella mia stessa condizione. Questi libici erano armati di tutto punto, con pistole, mitragliatori e coltelli”. (Veronica Crocitti)
Dai, avanti, ditelo….: aiutiamoli a casa loro. Massa di imbecilli!!!!
Dai, avanti, ditelo….: aiutiamoli a casa loro. Massa di imbecilli!!!!