Federico Tiezzi ha diretto una magistrale pièce in cartellone a Messina
MESSINA – Algida e stilizzata, splendida performance in scena da venerdì 14 a domenica 16 marzo al Vittorio Emanuele di Messina, con meritorio grande successo di pubblico, purtroppo ancora una volta non numeroso come l’occasione avrebbe richiesto.
“Fedra”…O dei tragici tormenti d’amore e della passione che consuma
Se l’azione rimane ambientata in Grecia, nel Palazzo reale di Trezene, la meravigliosa trasposizione in parola è contaminata da una visione prettamente francese, e con ciò caratterizzata da un impianto molto razionale e onirico in uno, con forti rimandi alla psicanalisi, che investe i personaggi, esplorando e traendo fuori il loro inconscio, quasi si fosse nel corso di una seduta.
Si corre lungo il “file rouge” della fuga, che nel concetto proustiano più autentico può tradursi in un esser portati ad amare chi non ci ama.
La Grecia classica è evocata creando forti suggestioni attraverso la scenografia calibrata e raffinata, molto estetizzante, con sculture, arredi marmorei sapientemente posti in rilievo, pur se frammisti ad elementi più contemporanei (come per i lampadari di cristallo più propriamente riconducibili ad epoca intorno agli anni ‘30) a mezzo luci sorprendenti, che virano dal bianco al rosso, mutevoli ,a scandire i momenti clou della rappresentazione.
I costumi fortemente contrassegnati da una accurata ricerca, se a tratti rievocano, come accade con riferimento alle bianche gorgiere maschili, l’epoca seicentesca raciniana(il dramma è datato 1677 ed è stato il primo ad essere messo in scena dalla Comedie Francaise), per le figure femminili assumono valenza atemporale, attraverso tuniche nere sciolte indossate dai personaggi femminili e dalla stessa Fedra nel drammatico finale, passando attraverso una concezione moderna della “femme fatale” dell’universo “Art Decò” e prima ancora “Art Nouveau”, più stilizzata, con utilizzo di abiti in bianco e nero con taglio a vestaglie) e paillettati, nell’incipit fortemente orchestrato con movimenti coreografici e canto, che vedono Fedra quale elemento centrale.
Ci si sposta continuamente da un piano all’altro, dalla realtà al simbolico, in una atmosfera per lo più rarefatta.
Si scava e si scova, si è detto, nella psicologia, “in primis” femminile, dando alla tragedia una nuova veste, capace di sondare quei meccanismi ancestrali che muovono e smuovono pulsioni atte ad accendere passioni insanabili perché poste fuori dall’ordine razionale precostituito e dunque non possono che risultare inevitabilmente fatali.
Federico Tiezzi ha diretto una magistrale pièce, con interpreti di eccellenza, che nella resa della prima attrice hanno raggiunto vette incommensurabili, ove il femminile si è fatto sovrastante nella monumentale costruzione della protagonista, capace di incarnare la visione totalizzante della donna, che, è sì vinta a se stessa, ma che non abdica al fuoco che la divora e consuma e per tener fede al quale si dà la morte.
Questa ulteriore preziosa versione si assomma a tante altre, risultando palese come il mito di Fedra superi i confini temporo-spaziali, e viaggi attraverso secoli e contesti diversificati, restando viva nell’immaginario letterario e artistico, con adattamenti alle epoche che trascorrono, essendo in realtà incarnazione del sentimento assoluto e riguardando tutti noi quando amiamo. La regina che ama non sarà mai celata sotto la coltre dell’oblio, poiché trascende la stessa sua storia personale, che non va incentrata sull’oggetto del desiderio, il proprio figliastro, quanto nella potenza in sé dell’eros. Certo, però giungere, in quella sua regalità ad ardere per Ippolito, è ancora di più il segno della forza della passione che può sospingere al di fuori delle leggi imperanti e dell’ordine precostituito.
Come già in Seneca, anche in Racine, a differenza di Euripide, l’elemento divino non trova cittadinanza e in luogo di Artemide e Afrodite sono rappresentate le umane e scomposte passioni, che sovrastano l’umano agire, quando non soggiacciono alle regole sociali.
Fedra- anzi tutte le Fedre, passate e contemporanee- con il proprio suicidio, attraverso la morte corporale, vuole rendere il sentimento libero della prigionia imposta dalla società, da ciò che è regolamentato.
Diversamente dalla sorella Arianna, già abbandonata da Teseo nell’isola di Nasso, Fedra si abbandona ai sentimenti amorosi e cede alla morte per poter consacrare il suo amore dopo la fine corporea.
Lo spettatore, per dirla con Francesco Orlando, nella sua Lettura freudiana della “Phedre”, del 1971, discute per l’opera di Racine di identificazione emotiva del lettore o spettatore con il personaggio teatrale e sostiene che si arrivi a solidarizzare con l’illecito.
Se ciò che è narrato non è vero, al pubblico non potrà pesare, cioè una storia d’amore proibita, ma con ciò bisognerà giustificare a se medesimi di provare compassione nei confronti di Fedra. Si solidarizza con Fedra perché Ella ama totalmente. Si ritiene opportuno menzionare anche le trasposizioni lungo l’arco del Novecento di Marina Cvetaeva e di Sara Kane, ma è la Fedra di Euripide, Seneca e Racine che segna il percorso di tutte le rivisitazioni del mito, fino a giungere alle ultime versioni citate, in cui la drammaturgia al femminile è tramite per l’emersione del proprio sentire interiore e del ruolo del femminile nell’evoluzione del teatro e della società.
Con S. Kane, in particolare, si chiude il cerchio, con il ritorno all’ordine sociale che porta la regina alla morte, con tutta la sua discussa stirpe e il togliersi la vita per non rinunciare all’amore e combattere l’oppressione precostituita, la dilagante falsità della ragion di stato è, come in tutte le Fedre, la chiave di volta.
Se Arianna ama Teseo, il Padre, Fedra ama il di lui figlio, Ippolito, e Fedra andrà a riavvolgere il filo, conducendo Ippolito verso quel toro che gli procurerà la morte, ed è quel filo che Arianna aveva srotolato per condurre Teseo fuori dal labirinto.
La pulsione di morte nella psiche di Fedra precorre, lo studio freudiano del dualismo Eros/Thanatos.
A partire dai due modelli classici, Euripide e Seneca, nel Seicento la riscrittura della tragedia di Racine si avvale di varianti per storicizzare il mito in direzione della morale monarchica e cattolica di quel tempo, attraverso la duale rappresentazione del vizio/peccato e della virtus/cristiana e l’eliminazione delle due divinità, e anche Ippolito arriverà ad amare amerà una mortale, Aricia, invisa al padre, mostrando una qualche debolezza, divenendo un po’ colpevole nei sui confronti, senza nulla togliere alla sua grandezza d’animo.
Anche in questo script Ippolito risparmia l’amore di Fedra, non giunge ad accusarla nel duro confronto con il padre.
Bella e intensa la figura del precettore Teramene, al quale egli confessa il suo sentimento, cercando sulle prime di reprimerlo attraverso la partenza alla ricerca del genitore, da lungo tempo oramai lontano dalla reggia. Poi Ippolito si apre anche alla stessa Aricia. Attraverso l’infiltrato Eros, Ippolito non potrà essere più passibile di hybris, ma continuerà ad essere concepito dalla stessa amata, in un certo qual senso, distante dai sentimenti.
Se Ippolito è reso più umano, rimanendo pur sempre manicheo e privo di sfumature, un puro, la matrigna di Racine è resa meno odiosa che nelle altre versioni e sarà infatti la nutrice a mettere in campo la falsa accusa a Ippolito e a svelarla a Teseo, e il figlio della Amazzone verrà additato come passibile di tentato stupro ”tout court”.
Anche in Racine, come già in Seneca, la Regina oscilla fra dirompente passione e analisi rigorosa, nella continua oscillazione del proprio ruolo di consorte di Teseo e di discendente della infelice stirpe di Pasife e Minosse, e come tale pregna di contraddizioni, oscillante fra il sole materno e le tenebre paterne. L’aspetto duale luce /ombra della Regina, presente nelle tre principali riscritture del mito, in Racine vuole sottolineare quel divario interiore fra il tacere e il parlare, fra ombra e luce del sole, fra vizio e virtù.
Quando Fedra parla alla nutrice Enone la luce divampa, ma Fedra, pentita dei delitti commessi, vorrebbe nascondersi nella notte infernale, ove però dovrebbe fare i conti con il Padre, che ha paura di disonorare e questo è un sentire cristiano, pur se associato alla vena giansenista raciniana, attraverso le parole di Enone. La trama è come condotta non dall’azione degli eventi, ma da quella delle passioni, nella loro estrema complessità morale e psicologica.
Si supererà il punto di non ritorno quando Fedra si illuderà di poter, credendo morto Teseo, offrire a Ippolito il trono, abbandonandosi ad un amore che potrà divenire puro, ma, tale superamento, condurrà, poi, al rientro di Teseo, al rifiuto del mondo. Le deità residuate in Racine sono Venere, personificazione del desiderio folle di Fedra e il “monstre furieux”, mandato da Poseidone, della passione per Ippolito rimasta troppo a lungo repressa, incarnando il toro la stessa Regina che si scaglia contro il corpo di Ippolito, per lei elemento negato, pur se sarà Teseo ad invocare il mostro e, uccisore di mostri per antonomasia, verrà visto quale eroe civilizzatore contro il passato primordiale e minoico. Fedra, ribelle e selvaggia come il luogo da cui promana, sarà vinta e nel dualismo Creta/Atene, Fedra/Teseo, si concretizzerà la vittoria dell’ordine precostituito. Nessuno dei personaggi è in scena solingo, ma sempre con un confidente, per Fedra la enigmatica Enone, per Ippolito Teramene e per Aricia, Ismene, e i confidenti valgono a placare le figure inquiete, apparendo sempre pacati e lenti. Fedra sembra compiere i gesti come fuori di sé, e poi vorrebbe come riprenderseli. Roland Barthes parla anche di tragedia della parola, con le tre confessioni di Fedra alla nutrice, a Ippolito, e a Teseo, che, essendo irreversibili, conducono alla inevitabile morte.
Enone appare quale levatrice, autentica nutrice, poiché intende liberare a qualunque prezzo Fedra dalla parola celata, richiamandola alla vita.
Nella confessione a Ippolito la Regina prova vergogna quando il mancato sguardo di Ippolito le dà certezza di non essere ricambiata e quella sua confessione sfocerà in un furibondo attacco e nel desiderio di essere uccisa dalla spada che Ippolito sta brandendo contro il suo petto.
L’arma contaminata, rimasta alla regina, in uno alla fuga di Ippolito, consentiranno a Enone di ipotizzare la falsa accusa.
Infine, la quasi confessione del crimine a Teseo, anticipata dallo scontro verbale padre/figlio, che si interromperà quando il Re le comunicherà il sentimento amoroso di Ippolito per Aricia. Teseo è sbrigativo, parla troppo presto, senza farsi scrupoli, non vuol vedere, fino alla esiziale fine di Ippolito e Fedra, che non si darà la morte con la spada dell’amato, ma attraverso il veleno che la purificherà, travolta dalla gelosia e dall’odio verso il figliastro e dall’orrore di sé. L’uso venefico rimanda a Medea e all’uccisione di Creusa e Medea è infatti zia di Fedra da parte materna e entrambe sono state civilizzate contro voglia e vinte dalla capacità di resistere all’anti-humanitas. Fedra lotta però contro se stessa, con le continue oscillazioni interiori, segno della sua fragilità.
Nel Novecento italiano, con D’Annunzio e Bozzini altre due importanti riscritture del mito in parola, con due antitetiche regine, una sensuale e l’altra più dolce.
Si è già citata Marina Cvetaeva e menziono anche Marguerite Yourcenar, ed entrambe porteranno in scena il conflitto interiore di Fedra, ma anche l’”ombra” di Fedra, la luminosa, di Elena Bono, del 1952. E poi, Ippolito e la vendetta, nel 1958, di Carlo Terroni, e la trasposizione cinematografica Phaedra, di Jules Dassin, del 1962, con denuncia sociale contro lo sfruttamento del popolo greco.
In conclusione, spettatori entusiasti, per questa fulgida opera teatrale, messa in scena con cura certosina di ogni dettaglio di ciascun elemento, che ha condotto all’ovazione finale, reiterata, per una rappresentazione perfetta, sintomatica di un nuovo corso perseguito con meritoria ostinazione dall’attuale direttore artistico della prosa del V. Emanuele, che mi trova convinta estimatrice, e che riuscirà, sono certa a raggiungere vieppiù vette elevatissime, che ,si confida, riporteranno in teatro alfine i seguaci della qualità.
Dramma di Jean Racine
Traduzione di Giovanni Raboni
Regia di Federico Tiezzi
Scenografie di Franco Raggi e Gregorio Zurla
Costumi di Giovanna Buzzi
Disegno luci di Gianni Pollini
Direzione del canto di Francesca Della Monica
Movimenti coreografici di Cristina Morganti
Interpreti: Catherine Bertoni de Laet, Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro
