Per la regia, scrittura e interpretazione di Domenico Cucinotta, in duetto con Mariapia Rizzo, un'appplaudita messa in scena ai Magazzini del Sale
MESSINA – Per la regia di Domenico Cucinotta, ai Magazzini del Sale, per la Rassegna “Doppia replica”, è andata in scena la mirabile pièce “Una storia di baffi”. Un atto unico dal pregevole script dello stesso Cucinotta, interpretato magistralmente dall’artista in duetto con la bravissima Mariapia Rizzo (in evidenza i due in una foto di Basilio Musolino).
La performance, di ottima fattura, tutta giocata sulla versatilità degli interpreti, si è avvalsa di intuizioni di direzione tecnicamente indovinate, quei fermo-immagine, di genesi cinematografica, rivelatisi soluzioni appropriate per evitare cambi scenografici inopportuni e mettere il focus su peculiari istanti di particolare significanza. Le luci di scena hanno reso ausilio a tali escamotages, oltreché esser state opportunamente dosate per l’intera durata della rappresentazione, per meglio sottolineare gli sguardi e i volti attoriali.
Una drammaturgia di pirandelliana derivazione
Di pirandelliana derivazione, è innegabile, la genesi della drammaturgia, ove si rintraccia il provvido omaggio al Premio Nobel siciliano nella creazione della narrazione, tutta incentrata su un elemento fisico, una propaggine del volto, in questo caso, costituita da un paio di baffi, che il protagonista decide di tagliare, già pregustando le reazioni che tale cambiamento genererà, a cominciare dalla amata moglie.
Nel romanzo “Uno, nessuno e centomila” tutto originerà a partire dalle fattezze del protagonista, tale Vitangelo Moscarda, che dalla moglie apprenderà di avere un naso storto.
Vite che risultano minate fin nelle fondamenta, in un vorticoso precipitare che, proprio da un elemento, “prima facie” irrisorio, ha avuto incipit.
Lo spettacolo, ambientato ai nostri giorni, si apre sulla coppietta affiatata, appartenente a classe agiata, che amoreggia su un divano – lasciando intendere la sussistenza di una relazione coniugale, almeno in apparenza perfettamente e saldamente inserita nel consorzio umano – finchè ciascuno si dedicherà alle incombenze giornaliere rispettive. Da un minuto all’altro, l’amabile famigliola da Mulino Bianco scivolerà nel terreno paludoso dei sospetti, del non detto, degli equivoci, che intaccheranno quella quotidianità, con parvenze di normalità. La mancata reazione della compagna, dapprima ricondotta ad uno scherzo (di dubbio gusto), con la complicità di amici e colleghi, si trasformerà ben presto, infatti, in un tremendo e abissale interrogarsi sulla visione di sé e dell’altro… Anche gli accadimenti rievocati non troveranno più alcuna coincidenza, come fossero differenti a seconda di ciascuna percezione, coperti dalla pesante coltre dell’incertezza, che sfalda ogni elemento assodato, rendendo l’esistenza sfocata e non più parte di un ingranaggio fino a qualche momento prima perfettamente oliato.
Conflitti coniugali ma non solo. Chi dovrà rivolgersi allo psichiatra per evidenti squilibri nella percezione degli eventi, del sé e dell’altro da sé? Da un evento fortuito, di oggettiva insignificanza, un dettaglio, si innalza un vortice di ragionamenti ed elucubrazioni che guastano l’equilibrio che appariva consolidato, e che, attraverso esperimenti, non potrà che condurre alla amara consapevolezza che non riusciamo ad avere di noi uguale percezione degli altri, e dunque di non essere per gli altri, anche quelli più vicini, come siamo per noi stessi.
Forse, in uno al Vitangelo pirandelliano, la risposta è l’accettazione del nulla, del fatto che la vita “non conclude” e con Lui potremmo bene esclamare, come nella chiusa: “Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori”.
Tra maschere e molteplici identità fino a un finale aperto
Anche il marito e la moglie dell’atto unico in parola, divengono un “fuori dal mondo”, distante da ogni altro essere umano e in scena ci mostrano il proprio punto di vista, le loro rispettive vertigini cerebrali.
Non possediamo una identità unitaria, ma siamo la risultante delle maschere che portiamo, anche di fronte a noi stessi…non resta che la follia, quale rimedio ai paradossi dell’esistenza, per sfidare tutte le apparenze che ci imprigionano. Il punto finale è scoprirsi perfino estranei a se stessi, prova ne è che sovente capita di non riconoscere la propria immagine riflessa.
La riflessione iniziale, che genererà implosioni interiori e scardinerà il proprio mondo di affetti coniugali, amicali e relazioni professionali, taglierà ciascuno dei protagonisti fuori dalla società, che non li riconoscerà poiché diversi dalla pregressa radicata rappresentazione.
Il futuro si realizzerà, momentaneamente, dopo la crisi e la frantumazione individuale e di coppia, nell’invenzione di un’esistenza “altra” in quel viaggio agognato, ove il marito potrà finalmente sfoggiare i suoi desiati baffi.
Una realtà dobbiamo pur farcela, se vogliamo essere: non sarà mai per tutti, una per sempre, ma di continuo infinitamente mutabile. Lodevole performance, in conclusione, alla quale ho conferito personalmente tale significato, pur se altre sfaccettature potrebbero essere evidenziate, magari con differenti considerazioni esegetiche. In fondo il finale è stato lasciato volutamente aperto, e potrà fluire liberamente ciascun discernimento.