Storie di questi giorni

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lunedì 21 Gennaio 2008 - 18:33

il popolo degli immigrati

Spostarsi altrove, lontano dalla fame, dalla miseria e dalla guerra, con la speranza di condizioni di vita che soddisfino il bisogno di rispetto per la propria umanità, rappresenta il sogno di migliaia di persone che quotidianamente sfidano le leggi di Stati a loro stranieri, alla ricerca di un lavoro, di quel benessere tanto ostentato dai mezzi di comunicazione.

Così, negli ultimi decenni, molti Paesi europei hanno visto modificare la loro storia ed il loro volto, dall’arrivo di nuove culture.

Ma la convivenza tra mondi diversi, se non adeguatamente preparata e sostenuta, può essere fonte di ingiustizie, di incomprensioni, di pregiudizi, che tendono a relegare sempre più lo straniero in quella posizione marginale nella quale inizialmente si trova, fino a renderlo invisibile o, addirittura, oggetto di mercificazione.

La mobilità, ossia l’attitudine della popolazione a spostarsi sul territorio, costituisce un elemento caratteristico della società umana.

Ci si sposta perché le occasioni di lavoro aumentano altrove, perché si intende formare un nuovo nucleo familiare o perché si prediligono altri contesti per motivi ambientali, culturali, affettivi.

Gli attuali flussi migratori costituiscono l’effetto cumulativo degli squilibri demografici, economici, sociali e politici che coinvolgono vaste popolazioni.

Pertanto, l’esistenza di un forte squilibrio tra sviluppo demografico e sviluppo economico, ossia tra la massiccia crescita demografica e le carenti possibilità occupazionali, ha costituito un fattore di espulsione (push factor) dai Paesi in via di sviluppo ance se non vanno trascurati altri fattori non strettamente economici, come la scolarizzazione, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e il peggioramento del clima politico.

I principali fattori di attrazione (pull factors) sono rappresentati invece, dalla domanda esercitata dall’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, per supplire alla scarsità di forza lavoro esistente in alcuni settori produttivi.

Si fa riferimento, in altri termini, alla segmentazione del mercato del lavoro tipica di molti Paesi industrializzati di destinazione, dove l’elevata disoccupazione coesiste con settori occupazionali la cui domanda di lavoro – a bassa produttività e di scarso prestigio sociale – non è soddisfatta dai lavoratori autoctoni.

In sintesi, i flussi migratori generati da fattori di spinta e di attrazione che tendono a rafforzarsi reciprocamente, variano a seconda delle aree geografiche interessate, delle relazioni esistenti tra Paesi di origine e di destinazione, del contesto socio-politico-economico e del livello di integrazione raggiunto nei Paesi di destinazione.

Sul piano istituzionale e legislativo, la preoccupazione dominante e’ quella del contenimento, del controllo, delle espulsioni, mentre spesso passano in secondo piano i temi dell’accoglienza, dell’integrazione, dei diritti.

L’Italia e’ divenuta da qualche decennio paese di immigrazione.

I movimenti migratori internazionali riguardano il nostro paese così come tutti i paesi dell’Unione Europea, sia quelli che sono stati tradizionalmente meta di flussi migratori (come l’Inghilterra e i paesi dell’Europa continentale), sia quelli della sponda Nord del Mediterraneo.

La pressione migratoria da questi paesi e’ l’effetto dello squilibrio tra popolazione e risorse, ma e’ assolutamente riduttivo ricercare nelle cause demografiche la spinta ad emigrare.

I rapporti di scambio ineguale, la distruzione dell’agricoltura contadina di sussistenza (con conseguenti processi di sovraurbanizzazione), l’esilità ed il mancato decollo delle strutture industriali e soprattutto il peso crescente del debito estero, sono la causa della debolezza dell’economia dei paesi di emigrazione e del bisogno di lavoro che spinge ad emigrare.

Alle cause economiche si sommano le cause politiche, ma se e’ sempre più difficile distinguere l’emigrazione per motivi politici da quella determinata da motivi economici, e’ facile notare invece, come le restrizioni si esercitano in maniera crescente anche nei confronti di chi e’ costretto ad emigrare per persecuzione etnica, sociale o religiosa.

Per effetto di ciò, in Italia si e’ determinata una sorta di sindrome da assedio, quasi che l’intera pressione migratoria dal Terzo Mondo e in particolare dai paesi del Mediterraneo, stia per riversarsi nel nostro Paese.

Certamente gli immigrati hanno un elevato grado di visibilità a causa della loro concentrazione in alcune zone e a causa della precarietà della loro situazione di insediamento.

Quest’ultima e’ a sua volta frutto di una carenza rispetto alle politiche sociali e di accoglienza anche nei confronti degli immigrati che hanno un lavoro: questo circolo vizioso tra carenza delle politiche, marginalità e visibilità, aiuta a rafforzare l’intolleranza.

Le donne sono le più vulnerabili ed indifese, subiscono spesso abusi ed i loro diritti fondamentali sono negati.

Sono sfruttate dai trafficanti e rischiano di diventare vittime di una nuova forma di schiavitù (la tratta).

Scarsamente valorizzate, confinate in ruoli che niente o poco hanno a che fare con la loro realtà, le donne immigrate in Occidente, sempre più numerose, devono essere al centro di un principale obiettivo: renderle “visibili-, attraverso progetti, proposte, racconti, restituendo loro specificità e una propria autonomia.

I minori immigrati presenti nel territorio italiano, quando non sono anch’essi vittime di turpi traffici, si trovano a dover affrontare quotidianamente difficoltà di inserimento nel territorio di residenza, nella scuola e nel lavoro.

In particolare, per quanto riguarda l’inserimento nella scuola, si è potuto constatare che spesso non vi è un momento di attiva mediazione nell’incontro tra la cultura di cui il minore straniero è portatore e la cultura rappresentata dalla scuola.

Ciò comporta inevitabili conflitti sia all’interno della comunità ospitante, sia nella famiglia e nel gruppo allargato a cui il minore appartiene.

La scarsa conoscenza delle diversità ed i conflitti che ne possono derivare, sono molto spesso alla base delle difficoltà di inserimento dei minori immigrati nella scuola; tali difficoltà possono portare al mancato adempimento dell’obbligo scolastico e all’avvio di un percorso di marginalità sociale, che può sfociare in fenomeni di microcriminalità.

La mancanza di qualificazione professionale e di un titolo di studio riconosciuto, nega l’accesso del minore al lavoro o lascia spazio a lavori poco gratificanti e scarsamente retribuiti.

Occorre pertanto valorizzare la singolarità di ogni minore individuando percorsi educativi personalizzati promuovendo il ruolo della famiglia immigrata ( in particolare la sua funzione di educazione e di formazione dei figli), favorendo l’instaurarsi di relazioni reciproche autentiche con il bambino, la famiglia e la comunità di cui fa parte.

E’ necessario inoltre, sostenere il ruolo della madre immigrata, per poter dare ai figli un’educazione adeguata anche all’interno di una cultura diversa da quella originaria, occorre cioè attivare interventi di mediazione tra minore, famiglia, istituzioni locali e territorio, riconoscere diverse culture di cui sono portatori i minori immigrati, valorizzare la lingua, la religione, le tradizioni, gli usi e i costumi.

E gli uomini come vivono? Vengono occupati generalmente in quelle mansioni che i lavoratori locali giudicano troppo faticose, scomode o mal pagate (ad es. estrazione del marmo, concia delle pelli, facchinaggio, lavorazione dei metalli nelle fonderie, raccolta della frutta).

Questi lavori, 30 anni fa, nel nord Italia, venivano fatti dai nostri emigrati meridionali.

L’immigrazione è un segno dei tempi che ci accompagnerà a lungo e l’integrazione non può essere considerata un esito scontato: nello scenario futuro certamente possiamo prevedere una società multi-culturale e multietnica.

Occorre pertanto dedicare maggiore attenzione alle regole di convivenza sociale, e superare paure e preconcetti inutili.

L’integrazione è però un’altra cosa: è la capacità di diventare “popolo- quando popolo non si è: il primo passo è la condivisione di contesti urbani, che si fa capacità di poter stare insieme; è solidarietà tra i popoli, è il dovere dell’accoglienza.

L’integrazione presuppone la parità di diritti e doveri e per esercitare in modo paritario questi diritti e questi doveri è chiaro che occorre imparare la lingua del paese dove si sceglie di abitare, accettandone le tradizioni e le regole.

Il che non vuol dire sopprimere le proprie, ma essere rispettosi delle regole, tradizioni e consuetudini del Paese dove si va a vivere senza però perdere la -propria anima-.

Imparando ad ascoltare, si riuscirà a cogliere oltre alle domande e ai bisogni espliciti, anche le richieste e i bisogni non detti, creando condizioni che favoriscano un possibile esito di integrazione non conflittuale.

Per fare questo è necessario conoscere, per non lasciare spazio all’egoistica e pericolosa difesa dei propri confini, non solo territoriali.

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