I frammenti di due vite intrecciate per sempre, quelle di una madre e del figlio, finito prima in un brutto giro e poi nell'inferno della droga. Storia di Ivan Lauria, il messinese morto in carcere a Catanzaro
Messina – Dall’inchiesta alla cronaca, dalla cronaca alla storia. Quella purtroppo spesso drammaticamente comune a tanti ragazzi che incontrano prima il crimine e poi la droga. E il carcere, quello che dovrebbe favorire la “rieducazione”, come detta la Costituzione, invece aggiunge problematiche a problematiche. Fino a quando dalla cella non si esce più perché i giorni in carcere sono più di quelli fuori. Fino a quando la droga, che hai incontrato magari fuori, dentro il carcere diventa la normalità e non c’è più modo di curarsi.
E’ questa la storia di Domenico Ivan Lauria, il 28enne morto in carcere a Catanzaro al centro di una inchiesta nata dalla denuncia della mamma e del legale, l’avvocato Pietro Ruggeri. Storia che la mamma Michela, dopo aver detto addio a suo figlio, racconta al microfono di Silvia De Domenico e Alessandra Serio.
Tra rabbia, commozione e lacrime Michela Lauria, 48 anni, una vita di lavoro in ospedale, non nasconde nulla degli anni difficili accanto al figlio, che non ha mai abbandonato.
Michela racconta di Ivan bambino, la passione per la moto e per la pesca. “Da Giostra, dove abitavamo, scendevamo insieme alla Caronte a pescare”, ricorda la mamma. Lei però era sola, una ragazza madre che ha dato il proprio cognome al figlio e che deve lavorare tutto il giorno. Ivan è scresciuto restando molte ore del giorno solo, dopo la scuola, all’isolato 13 dove abitava. I primi furtarelli coi coetanei sono arrivati presto e a 14 anni il primo arresto: è entrato in comunità minorile una volta, poi la seconda, poi di nuovo.
“Non ho mai dato la colpa alle cattive compagnie – spiega Michela – anche perché in quegli episodi era in compagnia di ragazzini come lui. Ho sempre cercato di fargli capire che era lui a sbagliare. Gli chiedevo perché e mi rispondeva: “Ma mamma, come faccio a chiedere a te le 5, le 10 euro che mi servono?”
A 18 anni il carcere vero, poi la droga. Anche dell’incontro con la cocaina Michela non nasconde i momenti più difficili, raccontando alcuni degli episodi più drammatici della tossicodipendenza. E spiega, ripercorrendo i passaggi travagliati della vita di Ivan, tra tentativi di suicidio e problemi gestionali nei penitenziari, perché un carcere non vale l’altro.
Ai funerali di Ivan, nella parrocchia di San Matteo, risuonavano le note dell’Ave Maria di Schubert e de “La rondine” cantata da Angelina Mango. “L’Ave Maria l’ho scelta io”, racconta Michela. “Ivan me la dedicava spesso, mi diceva sei la mia Madonna, perché ogni volta che era vicino al fondo, io lo riacchiappavo sempre. Ci sono sempre riuscita, anche malgrado le difficoltà di stargli vicino in carcere, anche solo con una telefonata e a volte grazie anche agli operatori. Gli bastava la mia telefonata, poter sentire la mia voce una volta a settimana come era sempre successo. E lui risaliva, gli dicevo di stare tranquillo che con l’avvocato avremmo sistemato tutto noi, lo avemmo fatto curare”. Una vita a “prenderlo per i capelli prima del fondo”, quella di Michela. Fino a quando il sistema penitenziario glielo ha permesso.