Dal 26 al 28 maggio in scena “Via Crudex-Cantico della minaccia”, la nuova produzione del Teatro dei 3 Mestieri, con la regia di Palazzolo
MESSINA. “Una Via Crudex senza resurrezione”: così la definisce Rosario Palazzolo. Il regista palermitano firma regia e drammaturgia di “Via Crudex-Cantico della minaccia”, la nuova produzione del Teatro dei 3 Mestieri, con Stefano Cutrupi e Silvana Luppino.
In scena – per il suo debutto nazionale – il 26 e il 27 maggio ore 21.00, il 28 maggio ore 18.30, al Teatro dei 3 Mestieri.
Paure, fragilità e difficoltà dell’attore, le sue “acrobazie emotive” – come le definisce Palazzolo – si uniscono ai temi cari alla sua penna per creare un percorso composto da “otto pezzi di un puzzle”.
Una vera e propria Via Crucis di due attori in “una lotta con il pubblico, con il testo, col regista, una lotta con se stessi, principalmente”.
In attesa di percorrere questa Via Crudex con gli attori, abbiamo intervistato il regista.
La Fenomenologia di Via Crudex
“Via Crudex – inizia Rosario Palazzolo – è uno spettacolo che non esiste. Dal punto di vista drammaturgico ha una sua inconsistenza voluta e abbracciata in toto, perché parla della necessità di stabilire cosa è oggi il teatro rispetto a chi lo fa, le motivazioni che spingono a fare ancora teatro. In un momento storico in cui l’esibizione è alla portata di tutti, l’artista deve trovare, secondo me, un modo alternativo per confrontarsi con l’esibizione. Deve distruggerla, annientarla, per proporre qualcosa che somigli alla verità, anche se è una verità storta. Io la chiamo iper-rappresentazione, una rappresentazione che supera la rappresentazione stessa per diventare qualcosa di altro; altro che, però, sto ancora cercando e che credo e spero di non trovare mai”.
“Via Crudex- Cantico della Minaccia – continua il regista – rappresenta una minaccia per il pubblico, non certo per gli attori, loro dovrebbero esser i “minaccianti”, se si prendono tale responsabilità. Lo spettacolo, in questa “crudità”, ha la sua caratteristica principale ma anche la sua debolezza. Mette in scena le fragilità dell’artista, quelle corruzioni emotive che lo possono portare a scegliere strade più confortevoli, anziché assumersi la responsabilità del baratro e del sapersi infrangere nel migliore dei modi. lo professo questa idea sulla mia persona – in quanto artista, drammaturgo – ma mi sento di proporla a chiunque incontri il mio percorso. Sono arrivato ad un punto della mia carriera in cui non mi interessa più mostrare il mio teatro, mi interessa farlo fallire. Ovviamente entra in gioco anche la vanità, il tentativo di non farlo, la paura di farlo bene, ma cerco un fallimento inteso nella sua accezione più nobile, un sapersi sporgere fino ai limiti possibili della propria sensibilità. Credo sia un atto che, oggi, il pubblico meriti”.
La lotta con il pubblico
In questa perpetua lotta dell’attore, in questo suo calvario, il pubblico è, infatti, un determinante elemento di scontro e incontro. Un pubblico che Palazzolo definisce tra le note di regia: “entità caliginosa”.
Così ci spiega il rapporto della sua scrittura con coloro i quali ne fruiranno: “Il più grande atto di onestà che posso proporre a un qualsivoglia pubblico è non pensare a lui. L’intrattenimento è un bellissimo mezzo per sentirsi confortati, protetti; ma il compito del teatro non deve essere questo, non deve essere disinnescare tensioni, ma proporle, renderle definitive. Quando parlo di un pubblico messo alle strette, lo faccio veramente perché vorrei essere messo io alla strette, vorrei essere schiaffeggiato quando vado a teatro o al cinema. L’atto di responsabilità che si richiede oggi all’artista non è, quindi, quello di intrattenere o di consolidare relazioni – per cui gli intelligenti vanno a teatro, gli stupidi ne restano fuori – questo senso di agorà è ormai scaduto e andato a male; è, invece, la necessità di mettere il pubblico in crisi esistenziale. Chi esce da teatro dovrebbe portare a casa un turbamento che non si risolve subito, qualcosa che dovrebbe ambire al germoglio, che cresce e ci interroga. È un’utopia, ma ciò non significa che non dobbiamo provarci. Questa possibilità di corrompere il pubblico è il motivo per cui mi ostino ancora a provarci”.
La Via Crudex di Palazzolo tra filosofia e teatro
Le riflessioni profondamente filosofiche di Rosario Palazzolo derivano – oltre che dal suo genio creativo – anche da un percorso di formazione che conta una Laurea in Filosofia. Ma qual è, allora, il cammino che dalla Filosofia lo ha portato al Teatro? È stato anche questo una Via Crudex?
“Senz’altro! La mia storia di formazione è molto complessa – come lo è quella di ciascuno di noi – ma io sono il risultato di tutte queste commistioni, di tutte le mie esperienze. L’ambito del pensiero inteso come Filosofia si impone di non trovare soluzioni ed è un allenamento del pensiero che mi interessa molto: non un resistere alla realtà, come se volessimo anestetizzarla, toglierle il succo cattivo, ma un provare a convivere con la sua complessità. Noi siamo complessi, la nostra esistenza è complessa, la realtà è complessa; in tutti i tentativi di risolvere tale complessità noi falliamo inesorabilmente, perché è impossibile semplificarla. Finché la semplificazione sarà trattata da padrona, infatti, verranno fuori tutti i mali morali e sociali. Noi dobbiamo vivere questa complessità, con questa complessità dobbiamo abituarci a osservare il mondo intero. E il teatro ha qualche possibilità di sopravvivenza perché pone l’uomo davanti a questa complessità”.
Una Via Crudex personale – quella del regista – il cui risultato non coincide di certo, però, con quel ricercato fallimento. Adesso è su Palazzolo, per fare solo un esempio, che vengono scritte tesi di Laurea. Concludiamo, infatti, con questo aneddoto: “Una volta un ragazzo viene a raccontarmi di aver avuto una verifica all’università nella quale una domanda chiedeva: Quale di questi autori dà alla verità un valore assoluto? Tra le varie voci c’era anche il mio nome. Il ragazzo mi dice che – conoscendo un po’ il mio teatro – non aveva barrato il mio nome, ma aveva sbagliato, la risposta corretta ero proprio io. Neanche io mi sarei mai scelto come risposta. Questo per dire che gli studi accademici mi fanno tanto piacere, cercano di studiare il mio lavoro, ma sono sempre frutto di punti di vista di studiosi che si approcciano ad una scrittura e devono farne un computo. Devono costruire un’anomalia intorno ad una figura, perché è questo che succede quando tenti di etichettare qualcosa”.